I promotori hanno reso oggi pubblico il contenuto del RICORSO al TAR del LAZIO AVVERSO il REGOLAMENTO ATTUATIVO EX ART. 21, COMMI 8 e 9, LEGGE 247/2012, patrocinato dall'Associazione Giovanile Forense Nazionale A.GI.FOR., con il contributo e la partecipazione del gruppo "No Alla Cassa Forense Obbligatoria" e di altri gruppi forensi e Colleghi Avvocati, che qui si ringraziano tutti.
I dati sensibili dei ricorrenti sono stati omessi.
IL RICORSO PRESENTATO AL TAR LAZIO AVVERSO I CONTRIBUTI MINIMI OBBLIGATORI AVVOCATI
ALL’ON.LE TRIBUNALE AMMINISTRATIVO
PER IL LAZIO – ROMA ORIGINALE
R I C O R R O N O
I Sig.ri
RICORRENTI
C O N T R O
1) Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in persona del Ministro p.t.
rapp.te legale, dom.to ex lege presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
2) Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t.
rapp.te legale, dom.to ex lege presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
3) Ministero di Giustizia, in persona del Ministro p.t. rapp.te
legale, dom.to ex lege presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
RESISTENTI
NONCHE’
4) CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA
ED ASSISTENZA FORENSE, C.F e P.I. Partita IVA 80027390584, in persona del Legale
Rappresentante pro-tempore, con sede in Roma alla Via Ennio Quirino Visconti n°
8 C.a.p. 00193;
CONTROINTERESSATA
AVVERSO E PER L’ANNULLAMENTO PREVIA
SOSPENSIONE
del Regolamento attuativo ex art. 21,
commi 8 e 9, della Legge n° 247/2012, approvato con ministeriale n°
36/0011604/MA004.A007/AVV-L-110 del 7 agosto 2014 (recante approvazione, di concerto
con il Ministero dell'Economia e delle Finanze ed il Ministero della Giustizia,
della delibera n° 20
adottata dal Comitato
dei Delegati della
Cassa Nazionale di Previdenza ed
Assistenza Forense, in data 20 giugno
2014, con la quale e' stato adottato il nuovo testo del
"Regolamento ex art. 21, commi 8 e 9 della Legge n°
247/2012", con la
seguente modifica: all'art. 7,
comma 6 ed all'art. 9, comma 5, e' aggiunto
il seguente periodo: "La relativa
delibera e' sottoposta
all'approvazione dei Ministeri
vigilanti"). Nota ministeriale pubblicata in G.U. del 20 agosto 2014
a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Serie Generale n°
192 del 20 agosto 2014), (All. 1), nonché di ogni altro atto,
anche endoprocedimentale, presupposto, connesso, collegato o consequenziale,
anche non conosciuto dai ricorrenti.
F A T T O
§. A. Questioni preliminari sulla
legittimazione ed interesse ad agire delle parti ricorrenti.
I ricorrenti, prima dell’entrata in
vigore della Legge n° 247/2012 non risultavano iscritti alla Cassa Nazionale di
Previdenza e Assistenza Forense (d’ora in poi anche solo Cassa Forense) e
risultavano iscritti soltanto all’Albo degli Avvocati (All. 2). Tuttavia, ora – iscritti ope
legis alla Cassa di categoria – sarebbero costretti, in virtù del
Regolamento impugnato, a corrispondere per l’anno 2014 l’importo c.d. minimo
obbligatorio di cui all’impugnato Regolamento ex artt. 7, 8 e 9, pur avendo
percepito nel 2013 un reddito molto basso ovvero pari a zero, come da
documentazione inviata alla Cassa Forense (All. 3), salvo doversi cancellare
dall’Albo degli Avvocati in tempi brevi ex art. 12 del Regolamento per cui è
giudizio ovvero novanta giorni dal ricevimento della comunicazione da parte
della Cassa Forense della iscrizione ope legis, in alternativa alle
autodimissioni spontanee dall‘Albo ex art. 12 dell’impugnato Regolamento: “A
coloro che, nelle more dell’approvazione Ministeriale del presente Regolamento
e, comunque, non oltre 90 giorni dalla sua entrata in vigore, procedessero alla
cancellazione da tutti gli Albi professionali prima della comunicazione della
formale iscrizione alla Cassa, in deroga a quanto previsto dal presente
Regolamento, nessun contributo minimo sarà richiesto, fermo restando il
versamento del contributo integrativo in proporzione al volume di affari
effettivamente prodotto. Analogo esonero è previsto per coloro che si
cancellino da tutti gli Albi forensi entro 90 giorni dalla comunicazione di
iscrizione alla Cassa ai sensi del presente Regolamento”, onde evitare
una situazione di morosità legale in difetto di ogni presupposto della loro
reale e concreta capacità contributiva ovvero proporzionale ad essa. Inoltre,
scaduti i periodi temporanei concessi dal Regolamento per le agevolazioni
riservate ai percettori di reddito pari ad €. 10.300,00 dovrebbero versare il
contributo minimo obbligatorio annualmente fissato dalla Cassa Forense ed
attualmente pari a circa 3.600 euro, così essendo costretti a cessare la professione di avvocato, anche in
virtù dell‘attuale art. 15 del Codice Deontologico Forense (All. C) che
sanziona disciplinarmente l’omesso o il ritardo nel pagamento di quanto dovuto
alle Istituzioni Forensi, ivi comprese la Cassa Forense. Altresì, il nuovo
Codice Deontologico Forense (All. D), in via di pubblicazione sulla G.U.,
sanziona, poi, tale comportamento nell’art. 16 con la censura e per la
reiterazione di esso è prevista come sanzione la sospensione ovvero la
radiazione. Tuttavia, tale sanzione disciplinare aveva una sua giustificazione
nella normativa anteriforma la Legge n° 247/2012, dacché tale normativa
prevedeva al di sopra di una soglia di reddito (per il 2013: 10.300 euro di
fatturato ovvero 15 mila euro di volume affari Iva) l’iscrizione obbligatoria
alla Cassa Forense, sicché non versare quanto dovuto presupponeva, nell’agente
tale comportamento antideontico, un reddito minimo ritenuto sufficiente alla
contribuzione previdenziale. Inoltre, come noto, la contribuzione previdenziale
è onere TOTALMENTE deducibile fiscalmente, di talché la stessa per i percettori
di reddito pari o superiori a 10.300 euro si appalesa anche vantaggiosa
fiscalmente in quanto abbatte la soglia della tassazione Irpef, poiché capienti
fiscali. Le parti ricorrenti resterebbero, viceversa, qualora non venisse
annullato il Regolamento impugnato: 1) senza poter esercitare la professione,
ancorata per espressa previsione costituzionale al solo superamento dell‘Esame
di Stato; 2) senza percepire alcun trattamento pensionistico, come si dirà infra;
3) in ogni caso, debitori legali di Cassa Forense senza alcun attuale
presupposto per una loro ragionevole contribuzione al sodalizio previdenziale
forense coattivamente imposto loro; 4) con il rischio attuale e concreto di
essere disciplinarmente e forzatamente esodati dall’Albo, qualora non si auto dimettano
“spontaneamente” ex art. 12 Regolamento impugnato. Infatti, il Presidente di
Cassa Forense ha notiziato pubblicamente la Stampa che l’Ente da lui presieduto
ha attivato le segnalazioni agli Ordini degli Avvocati territoriali per
l’irrogazione delle sanzioni disciplinari nei confronti dei legali morosi (All.
4).
*********
Tanto premesso i provvedimenti
impugnati de quibus sono illegittimi e vanno annullati, previa loro
sospensione, per i seguenti
MOTIVI
DI DIRITTO
§. B. Questioni
preliminari di tempestività e ammissibilità del ricorso.
Il presente ricorso si appalesa
tempestivo, in quanto notificato ai Dicasteri competenti (presso
l’Avvocatura Generale dello Stato) entro il termine prefissato, decorrente,
come noto, anche per gli atti normativi, dalla pubblicazione sulla G.U. (cfr.
conf. C.d.S., Sez. IV, 26 gennaio 1998, n° 76; C.d.S., Sez. V, 6 giugno 1996,
n° 661; C.d.S., Sez. IV, 17 aprile 2002, n° 2032). Il termine ex art. 29 D.lgs.
n° 104/2010 decorre dalla pubblicazione sulla G.U. da parte dei Ministeri
Vigilanti, perché il Regolamento, prima di tale approvazione, non incide sui
soggetti coinvolti (non essendo immediatamente lesivo), non è esecutivo e si
appalesa come previsione generale ed astratta, tipica degli atti normativi.
Solo dopo la pubblicazione il testo del Regolamento assume carattere
definitivo, potendo variare in seguito a eventuali rilievi dei Ministeri
vigilanti. Circa l’ammissibilità, “la giurisprudenza amministrativa accorda
la legittimazione all’immediata impugnativa di un Regolamento – per definizione
atto generale ad astratto - (omissis) segnatamente a coloro i quali siano
autorizzati a svolgere una certa attività, in concreto avente alcune
caratteristiche, e la vedano dal regolamento in parola diversamente
disciplinata: così C.d.S. sez. VI 16 febbraio 2002 n° 961, nella giurisprudenza
della Sez. II 4 ottobre 2010 n° 3730 e, di recente, sez. I 17 giugno 2013
n°584; in termini non dissimili, accorda poi la legittimazione anche a coloro i
quali facciano parte di una data categoria di giuridico rilievo, (nella
specie coloro che sono iscritti agli Albi degli Avvocati), sulla cui
situazione il regolamento incide: così C.d.S. sez. VI 18 dicembre 2007 n° 6535”
(cit. TAR Lombardia – Sez. Dist.ta di Brescia, Ricorso n° 01002/2004 REG.RIC.).
§. 1.
1. Violazione di legge: 1) illegittimità costituzionale dell’art. 21, commi 8 e
9 della Legge 2012, n° 247 per violazione del principio di legalità ex artt. 23, 97, 113 Cost.; 2) Violazione del
canone di ragionevolezza della Legge ex art. 3 Cost.
Va,
innanzitutto, fatta rilevare l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma
9, della Legge 2012, n° 247, che conferisce tout court alla Cassa
Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense
il potere di determinare con proprio regolamento la misura dei contributi minimi dovuti dai percettori
di reddito sotto i parametri reddituali, senza al contempo fissare dei criteri puntuali e precisi per l’esercizio
della normazione secondaria, lasciando, in tal modo, al mero arbitrio della
Cassa categoriale il potere di fissare un minimo obbligatorio svincolato da
qualsiasi parametro di controllo. Appare
evidente, pertanto, la violazione del principio di legalità sostanziale che
viene posto alla base del moderno Stato di diritto, rivolgendosi esso principio,
prima ancora che all’amministrazione, allo stesso legislatore. Invero, per
effetto del principio in esame non è consentito che la descrizione legislativa
del potere assegnato all’amministrazione si connoti per la sua assoluta
indeterminatezza, con conseguente riconoscimento normativo - a sicuro discapito
dei possibili destinatari dell’azione amministrativa - di una totale libertà al
soggetto od organo investito della funzione. E, infatti, in forza del principio
di legalità, non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla Legge alla
tutela di un bene o di un valore, ma
è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle
modalità, in modo che sussista costantemente una, pur elastica, copertura
legislativa dell’azione amministrativa (è quanto ripetutamente sostenuto dalla
Corte Costituzionale: tra le altre, si vedano le sentenze nn° 115 del 2011; 32
del 2009; 307 del 2003; 150 del 1982). Evidente la ratio garantista del
principio, posto a tutela dei cittadini (e più in generale dei destinatari
dell’azione amministrativa), i quali trovano protezione, rispetto a possibili
discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere
concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. L’esigenza di
garanzia sottesa al principio di legalità dell’azione amministrativa è,
peraltro, avvertita in modo ancor più pregnante dalla giurisprudenza allorché
l’esercizio della funzione assegnata all’amministrazione si concretizzi
nell’imposizione di prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e
di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti,
impongono, comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti
considerati: è, in specie, il caso in cui l’azione amministrativa si materializza
- dal lato del destinatario - nell’imposizione di prestazioni di tipo personale
o patrimoniale. I parametri normativi di riferimento del principio in esame
sono costituti, quindi, dagli artt. 97, 23 e 114 Cost. Ai sensi dell’art. 97,
comma 1, Cost. “ i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di
Legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione”. La disposizione, dunque, pone anzitutto una riserva
di Legge in materia di organizzazione amministrativa; riserva che,
pacificamente, è intesa come relativa, sicché ben può il legislatore limitarsi
a fissare le linee fondamentali dell’organizzazione dei pubblici uffici,
rimettendo alla fonte secondaria la disciplina di dettaglio. Sebbene la fonte
sia riferita al solo profilo organizzativo, la si ritiene tuttavia
pacificamente estesa anche all’attività della P.A., anch’essa soggetta alla
Legge: è quanto può desumersi dalla posizione di supremazia che, per effetto
delle previsione costituzionale riportata, la Legge assume rispetto
all’attività degli uffici. È, inoltre, quanto di recente sostenuto da Corte
cost. 7 aprile 2011, n° 115. Intervenuta a definire la questione relativa alla
legittimità costituzionale dell’art. 54, co 4, D.lgs. n° 267 del 2000, in tema
di ordinanze di necessità del Sindaco, la Corte ha invero sostenuto che l’art.
97 Cost. istituisce una riserva di Legge relativa, allo scopo di assicurare
l’imparzialità della P.A., la quale può soltanto dare attuazione, anche con
determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla
Legge. La stessa Corte ha precisato, peraltro, che tale limite è posto a
garanzia dei cittadini, che trovano protezione, rispetto a possibili
discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere
concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. E, difatti, la
stessa norma di Legge che adempie alla riserva può essere a sua volta
assoggettata - a garanzia del principio
di eguaglianza che si riflette nell’imparzialità della pubblica amministrazione
- a scrutinio di legittimità costituzionale. Viceversa, l’assenza - nella norma
legislativa che attribuisce il potere amministrativo - di limiti (che non siano
genericamente finalistici) non consente che l’imparzialità dell’agire
amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo,
ancorché non dettagliato, nella Legge. Come dicevasi, l’esigenza di garanzia
sottesa al principio di legalità dell’azione amministrativa è, a fortiori, avvertita
allorché l’esercizio della funzione assegnata all’amministrazione si concreti
nell’imposizione di prestazioni di tipo personale o patrimoniale. All’uopo
giova, altresì, sottolineare come, nel ricostruire la base giuridica del
principio di legalità dell’azione
amministrativa, si debba avere riguardo anche all’art. 23 Cost. a tenore del
quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se
non in base alla Legge”. Si è al cospetto di una riserva di Legge a
carattere relativo: è, invero, consentito che la Legge lasci all’autorità
amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti
gli ambiti non coperti dalle riserve di Legge assolute, poste a presidio dei
diritti di libertà, contenute negli art. 13 e seguenti della Costituzione.
Come, tuttavia, chiarito ripetutamente dalla Corte Costituzionale, il carattere
relativo della riserva de qua non relega la Legge sullo sfondo, né può
costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti
amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale a una prescrizione
normativa “in bianco”, genericamente orientata a un principio-valore, senza una
precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione
amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini.
Secondo la giurisprudenza della Corte, infatti, l’espressione “ in base alla
Legge”, contenuta nell’art. 23 Cost., si deve interpretare “in relazione
col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si
ispira tale fondamentale principio costituzionale; questo principio, cioè, “implica
che la Legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione
non lasci all’arbitrio dell’ente
impositore la determinazione della prestazione” (Sent. n° 4 del
1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito più di recente quando la
Corte ha affermato che, affinché possa dirsi osservata la riserva relativa di
cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che “la concreta entità
della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi
legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione (Corte cost.
2007 n° 190). Infine, occorre rilevare che, secondo una diffusa ricostruzione,
la lettura congiunta degli artt. 24 e 113 Cost., assoggettando l’attività della
P.A. al controllo dell’autorità giudiziaria, presuppone che la stessa non possa
svolgersi in contrasto con norme di Legge, destinate a fungere da parametro del
controllo giudiziario. In conclusione, l’ente di previdenza forense col
Regolamento per cui è ricorso ha compiuto violazione di legge (id est:
illegittimità costituzionale dell’art. 21, commi 8 e 9 della Legge 2012, n° 247
per violazione del principio di legalità
ex artt. 23, 97, 113 Cost.; violazione del canone di ragionevolezza
della Legge ex art. 3 Cost.), in modo del tutto arbitrario e incontrollato -
stante l’assenza di criteri puntuali e precisi fissati a tal fine dal
legislatore (quantunque avendo esso legislatore escluso, in ogni caso, per i
professionisti sotto i parametri reddituali, la contribuzione ordinaria) -
mediante la determinazione di un contributo obbligatorio c.d. agevolato (invero
riservato solo ai primi anni di esercizio della professione, di poi agganciando
questi professionisti alla contribuzione ordinaria, in palese violazione del
disposto normativo dell‘art. 21 Legge n° 247/2012).
§. 2. Violazione di
legge: 1) Illegittimità dell’art. 21, commi 8 e 9, della Legge 2012, n° 247 per
violazione dei principi comunitari sulla concorrenza ex art. 117 Cost. e 106 TFUE e 16 della Carta dei diritti fondamentali
dell’unione europea. Illegittimità costituzionale della Legge 2012, n° 247 per
violazione dell’art. 41 Cost.; 2) Illegittimità costituzionale dell’art. 21,
commi 8 e 9 della Legge n° 247/2012 per violazione degli artt. 2, 3, 4 e 33, comma 5 , 41 e 53 Cost. Illegittimità dell’art 21, commi 8 e
9, della Legge n° 247/2012 per violazione degli artt. 15, paragrafo 1, e 21
della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Và, altresì, denunciata la violazione
dei principi comunitari sulla concorrenza realizzata dalla previsione
censurata, la quale lascia all’arbitrio dell’ente di previdenza forense il
potere di fissare gli anzidetti contributi. Quest’ultima conseguenza discende,
infatti, dall’assimilazione delle professioni intellettuali all’attività di
impresa operata dalla giurisprudenza comunitaria, assimilazione che determina,
quindi, l’assoggettamento delle professioni intellettuali ai principi
comunitari sulla concorrenza vigenti per le imprese, e in particolare al divieto
di porre in essere misure restrittive della concorrenza ex art. 106 TFUE. L’ente
di previdenza, infatti, essendo composto esclusivamente da
rappresentanti del vertice del ceto professionale degli avvocati (il
diritto di elettorato passivo spettando, infatti, solo agli avvocati con più di
dieci anni di regolare e continuativa iscrizione alla Cassa), appare, ictu
oculi, essere stato condizionato, nel determinare la contribuzione
previdenziale, dall’interesse corporativo di limitare l’accesso alla
professione, con l'effetto di restringere la
concorrenza. Da tale assimilazione
consegue, altresì, che le norme censurate violano la libertà d’impresa sancita
dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
perché producono l’effetto di impedire e restringere il libero dispiegarsi
della concorrenza. La previsione censurata, inoltre,
si pone in contrasto con l’art. 41 Cost. in quanto non rispetta il limite
costituzionale secondo cui l’iniziativa economica non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla dignità umana,
non potendo certo dirsi che la suddetta previsione persegua un interesse
generale, ossia quello di tutti gli avvocati, bensì soltanto l’interesse degli
avvocati facenti parte degli studi più facoltosi seppur ignari
dell’agevolazione ricevuta. Le norme denunciate, peraltro, ledono la
dignità morale dei soggetti che hanno conseguito l’abilitazione professionale,
ma non hanno la possibilità di sostenere gli oneri contributivi fissati
dall’ente di previdenza forense, costringendoli, pertanto, a cancellarsi
dall’Albo ovvero a non iscriversi ad esso, precludendo loro, quindi, la
possibilità di esercitare l’attività professionale e di realizzare in tal modo
la propria personalità. Và, altresì, sottolineato che, a livello
interno, l’applicabilità alle professioni regolamentate dei principi sulla
concorrenza è prevista dal D.L. n° 138/2011 conv. in Legge n°
148/2011 ove si stabilisce che i principi sulla concorrenza devono ispirare le
professioni regolamentate e quindi essere garantiti dagli ordinamenti
professionali (vedansi art. 3 D.L. n°
138/2011 conv. in Legge n° 148/2011). In particolare, l’art. 3, comma 5, Legge
n° 148/2011 cit. prevede “che fermo restando l'esame di Stato di cui
all'articolo 33 quinto comma della Costituzione per l'accesso alle professioni
regolamentate, gli ordinamenti professionali devono garantire che l'esercizio
dell'attivita' risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza…Gli
ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di
entrata in vigore del presente decreto per recepire i seguenti principi: a) l'accesso alla professione e' libero e il
suo esercizio e' fondato e ordinato sull'autonomia e sull'indipendenza di
giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista”. L’art. 21, commi 8 e 9 della Legge 2012, n°
247 collega automaticamente l’iscrizione alla Cassa Forense alla semplice
iscrizione all’Albo degli avvocati, facendo nascere conseguentemente e
immediatamente l’obbligo del pagamento del contributo previdenziale
indipendentemente da una reale e sufficientemente adeguata produzione di
reddito. Tale previsione, quindi, sostanzialmente, subordina, in modo del
tutto irragionevole, contraddittorio e discriminatorio, il diritto di iniziare o
continuare a svolgere la professione di avvocato alle condizioni economiche e,
dunque, al patrimonio di chi può, per la fortuna di avere un genitore con uno
studio legale avviato ovvero una situazione economica florida derivante da
altre tipologie reddituali, adempiere all’obbligo di pagare il suddetto
contributo, valorizzando in tal modo requisiti patrimoniali, anziché le reali
capacità professionali e il patrimonio intellettuale di conoscenza del singolo individuo. Non si può,
tuttavia, nel quadro normativo europeo e costituzionale nazionale ammettere che
le condizioni patrimoniali rappresentino un valido discrimen ai fini
della valutazione dei requisiti per l’esercizio della professione di avvocato,
pena l’irragionevolezza delle norme censurate. E, infatti, le condizioni
economiche e il patrimonio rappresentano dati irrilevanti e quindi
assolutamente inconferenti nella valutazione dei requisiti per l’esercizio di
una professione spiccatamente “intellettuale” che dovrebbe valorizzare
esclusivamente requisiti inerenti il patrimonio intellettuale del soggetto,
come d’altronde si evince dallo stesso sistema costituzionale italiano, il
quale all’art. 33, comma 5, Cost. prevede, per l’accesso e l’esercizio delle
professioni regolamentate, esclusivamente il requisito dell’abilitazione che si
consegue tramite un Esame di Stato. Esame di Stato che consiste, per
l’appunto, in prove scritte e orali vertenti su materie giuridiche e, quindi,
volte a valutare le capacità intellettuali e la preparazione tecnica dell’aspirante
avvocato. Ciò induce a ritenere che qualsiasi impedimento o limitazione
all’esercizio della professione di avvocato deve ritenersi in contrasto con il
citato art. 33, comma 5, Cost. La Legge censurata, inoltre, tratta in modo
eguale situazioni diverse, violando il principio di parità di accesso al
mercato dei servizi legali, non potendo, infatti, parificarsi ai fini
contributivi chi inizia a svolgere la professione di avvocato e chi si è già
affermato nel campo lavorativo, perché da lungo tempo esercita l’attività di
legale. Pertanto, l’art. 21, commi 8 e 9 della Legge professionale viola il
principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. poiché stabilisce, con l’imposizione
del suddetto contributo previdenziale sganciato dal reddito, un trattamento
uguale per situazioni diseguali. E, infatti, il citato art. 21, commi 8 e 9, opera una
discriminazione fondata sulle condizioni personali e sociali dell’individuo,
ponendosi in contrasto con il compito della Repubblica di rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica
e sociale del Paese (art. 3 Cost.). Il testo di Legge in esame, quindi,
inevitabilmente costringe chi non ha la capacità economica per assolvere ai
pesantissimi obblighi contributivi, vieppiù crescenti nel tempo, imposti dalla
Cassa Forense a cancellarsi dall’Albo, impedendogli per tal via di esercitare
la professione e, quindi, di realizzare la propria personalità, in tutte le sue
manifestazioni ed espressioni, personalità di cui, certamente, la professione
scelta costituisce la proiezione nel campo lavorativo. Manifesta appare,
dunque, la violazione da parte delle norme censurate anche dell’art. 4 Cost.
che riconosce il fondamentale rilievo costituzionale del diritto al lavoro
proclamando solennemente che la
Repubblica riconosce a tutti il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto. Invero, non si può negare che l’imposizione
del suddetto contributo minimo, anziché creare le condizioni per rendere
effettivo il diritto al lavoro, lo ostacoli in modo grave. Né può essere
sottaciuto che il combinato disposto dell’art. 21, commi 8 e 9, viola il
canone di ragionevolezza ed equità delle leggi ex art. 3 Cost. A tal
proposito, va ricordato che la giurisprudenza costituzionale ha desunto
dall’art. 3 Cost. “un canone di “razionalità” della Legge svincolato da una
normativa di raffronto, rintracciato nell’esigenza di conformità
dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità […] ed a criteri di coerenza
logica, teleologica e storico-cronologica, che costituisce un presidio contro
l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa”
(Sentenza n° 87 del 2012). E, infatti, non può qualificarsi ragionevole una
previsione di Legge che impone il versamento di un contributo minimo di elevata
entità indipendentemente dalla considerazione del raggiungimento di un adeguato
reddito che consenta di adempiere all’obbligo previdenziale unitamente agli
altri obblighi fiscali, quali l’IVA, l’IRPEF, IRAP, TARI, TASI, senza privare
al contempo il soggetto del minimo vitale per sopravvivere. Orbene, tale
previsione produce conseguenze inique a danno dei meno abbienti in spregio al
principio di equità, che secondo la Sentenza della Corte di Cassazione 2011, n°
12408, va intesa come parità di trattamento e come strumento di eguaglianza
perché consente di trattare i casi dissimili in modo dissimile e i casi
analoghi in modo analogo. Inoltre, evidente risulta la mancanza di coerenza
logica e teleologica della Legge censurata e quindi l’irrazionalità di
quest’ultima, laddove all’art. 1, comma 2 lettera d) afferma che l’ordinamento
forense favorisce l’ingresso alla professione di avvocato e l’accesso alla
stessa, in particolare per le giovani generazioni, con criteri di valutazione
di merito, e al successivo art. 3, comma 1, proclama solennemente che
l’esercizio della professione di avvocato deve essere fondato sul giudizio
intellettuale, per poi sancire all’ art. 21, commi 8 e 9 principi opposti
(comma 8: “l’ iscrizione agli albi comporta la contestuale iscrizione alla
Cassa Nazionale di previdenza”; comma 9:
“l’obbligo di versamento dei minimi contributivi nel caso di soggetti iscritti
senza il raggiungimento di parametri reddituali“) che valorizzano non di certo
criteri di valutazione di merito o qualità intellettuali dell’individuo, bensì
dati economico-patrimoniali dipendenti da variabili fortuite - quali eventuali
conoscenze professionali redditizie, fortuna nel trovare potenziali clienti
facoltosi, background sociale di “rilievo” etc. - con l’effetto di contenere completamente
l’accesso alla professione nei confronti di chi non possieda la capacità
economica necessaria al versamento degli “oneri” contributivi previdenziali. Evidente,
dunque, risulta l’ostacolo alla concorrenza creato dalla normativa censurata,
la quale impedisce (persino di iniziare) l’esercizio della professione ai
soggetti con reddito (proprio e/o familiare) basso o nullo. Orbene, occorre
sottolineare come costituisca dato di comune esperienza quello secondo cui
l’avvio di uno studio legale richieda numerosi anni per la formazione e
acquisizione di una clientela, mentre
l’obbligo contributivo impedisce di attendere quegli anni necessari per
l’affermazione nel campo professionale a chi quegli anni non può aspettare di
far decorrere, perché costretto a cancellarsi dall’Albo (per non poter pagare
da subito contributi previdenziali di tal guisa) al fine di evitare un
insostenibile indebitamento previdenziale. Và, oltretutto, segnalata la
mancanza di coerenza teleologica della previsione di cui all’art. 21, commi 8 e
9 e, quindi, l’irrazionalità della stessa, essendo evidente che l’obiettivo
della norma censurata non sia quello di garantire la pensione ai nuovi
iscritti, ma di produrre uno sfoltimento degli Albi attraverso la cancellazione
degli avvocati che non raggiungono un reddito sufficiente ad assolvere il pagamento
del contributo minimo soggettivo. Ciò si evince dal fatto che il
Regolamento attuativo prevede un ampio margine di tempo per dare modo agli
iscritti agli Albi di cancellarsi, indice, ciò, della consapevolezza da parte
dell’ente di previdenza dell’effetto (o meglio dell’obiettivo) principale che
l’iscrizione alla Cassa determina, ossia la cancellazione dall’Albo.
L’irragionevolezza denunciata assurge al suo massimo livello se si considera
che, comunque, il versamento dei contributi è imposto a prescindere da ogni
considerazione relativa all’età del soggetto che si iscrive all’Albo, il quale,
dunque, potrebbe non raggiungere in
relazione all età di iscrizione alla cassa (ad es. 40 anni) il numero di anni
contributivi necessari per l’ottenimento della pensione. Le norme denunciate,
dunque, sono da ritenersi illegittime per violazione del principio di
eguaglianza e ragionevolezza nella parte in cui non prevedono l’esenzione
dall’iscrizione alla Cassa di categoria per chi al momento dell’iscrizione alla
Cassa ha raggiunto un’età tale da non potere più maturare il numero di anni
contributivi necessari per l’ottenimento della pensione. Il combinato
disposto dei commi 8 e 9 dell’art. 21 viola, inoltre, il principio di
proporzionalità come delineato dalla giurisprudenza
costituzionale. Segnatamente, quest’ultima ha sottolineato che lo scrutinio
di ragionevolezza, in ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa,
impone, inoltre, alla Consulta di verificare che il bilanciamento degli
interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità
tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura
eccessiva e, pertanto, incompatibile con il dettato costituzionale. Tale
giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità
dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità
rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende
perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente
sussistenti» (Sentenza n° 1130 del 1988). A questo scopo può essere utilizzato il
test di proporzionalità, insieme con quello di ragionevolezza, che
«richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le
modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di
obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate,
prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri
non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (Sentenza n° 1
del 2014). In applicazione di tali principi, può affermarsi che il diritto al
lavoro - sancito dall’art. 4 Cost. e dall’art. 15 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea - e la
libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) siano stati sacrificati
in modo eccessivo dalla normativa censurata. Giova evidenziare che il
canone di proporzionalità, di converso, sarebbe stato rispettato fissando la
contribuzione previdenziale in misura proporzionale al reddito imponibile, come
nel sistema della Gestione Separata Inps. La normativa in esame
pregiudica, altresì, la libertà professionale e il diritto di lavorare sanciti,
quali fondamentali diritti della persona, dall’art. 15 paragrafo 1 della Carta
dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Segnatamente, l’art. 15 riconosce
che ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare liberamente una
professione liberamente scelta o accettata, laddove l’avverbio liberamente
sottintende l’assenza di ostacoli che possano impedire o compromettere
l’esercizio della professione. Le norme scrutinate violano, inoltre, il
disposto dell’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare sul
patrimonio o la nascita, non potendo, pertanto, le condizioni economiche
rappresentare un ostacolo e comunque un valido discrimen ai fini della
valutazione dei requisiti per l’esercizio della professione di avvocato.
Alla luce dei superiori rilievi va dichiarata, pertanto, l’incompatibilità
della Legge di riforma della professione di avvocato con la normativa
comunitaria e segnatamente con gli artt. 15 paragrafo 1 e 21 della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la quale, con l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, ha ricevuto nel
primo comma dell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea il riconoscimento
dello stesso valore giuridico dei Trattati, consacrandone in tal modo
l’avvenuta “comunitarizzazione”. Come già detto, la normativa censurata realizza,
inoltre, una violazione dei principi comunitari sulla libertà di concorrenza.
Quest’ultima affermazione consente, dunque, di evidenziare un vizio di coerenza
logica, teleologica e storico-cronologica delle norme censurate e quindi
l’irrazionalità delle stesse, in quanto esse si pongono in contrasto con quanto
previsto dal D.L. n° 138/2011 conv. in Legge n° 148/2011, dove si stabilisce
che i principi sulla concorrenza devono conformare le professioni regolamentate
e quindi essere garantiti dagli ordinamenti professionali (vedasi art. 3 D.L.
n° 138/2011 conv. in Legge n°148/2011). In particolare, l’art. 3, comma 5,
Legge n° 148/2011 prevede “che fermo restando l'esame di Stato di cui
all'articolo 33 quinto comma della Costituzione per l'accesso alle professioni
regolamentate, gli ordinamenti professionali devono garantire che l'esercizio
dell'attivita' risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza…Gli
ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di
entrata in vigore del presente decreto per recepire i seguenti principi: a) l'accesso alla professione e' libero e il
suo esercizio e' fondato e ordinato sull'autonomia e sull'indipendenza di
giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista“. Sotto altro profilo,
si deve rimarcare che i limiti posti dalle norme censurate all’esercizio della
professione di avvocato dovrebbero essere ritenuti irragionevoli in quanto
finalizzati ad assicurare la pensione
alla categoria degli avvocati in età più avanzata ed ormai prossimi
alla pensione, i quali hanno operato durante una periodo economico differente e
più favorevole di quello attuale, e che, comunque, rappresentano soltanto una
parte dell’intera categoria dell’avvocatura. I limiti tracciati all’esercizio
della professione consistenti nell’obbligatoria produzione di reddito per
assolvere agli obblighi della previdenza forense, si presentano oltremodo
irragionevoli e discriminatori se solo si considera la natura (meramente
fortuita) delle situazioni che possono determinare la capacità di assolvere
agli obblighi previdenziali, e che la riforma dell’ordinamento forense con una
sorprendente capacità bisnoetica degna del Grande Fratello di orwelliana
memoria definisce requisiti di merito (art. 1, comma 2, lett. d)
) pur non avendo nulla a che fare con il “merito“. Tali situazioni possono,
infatti, consistere ad es. nella fortuna
e non certo nel merito di avere un genitore con uno studio legale avviato o una
situazione economica florida derivante da altre tipologie reddituali, possesso
di cespiti patrimoniali, incarichi conferiti per via di amicizie politiche o
conoscenze influenti, amicizie e conoscenze che difettano certamente a chi
nasce da una famiglia modesta. In altre parole, non esiste alcuna
regola sociale o scientifica che asserisca in modo incontrovertibile che il
merito sia da collegare sempre ed inevitabilmente a un portafoglio clienti numeroso e ben remunerativo. La
parzialità direttamente discriminatrice della riforma della previdenza forense
non può trovare cittadinanza in un paese democratico che si conforma ai
principi comunitari della concorrenza e che tutela i diritti inviolabili della
persona previsti dai principi fondamentali della Carta Costituzionale di cui
agli artt. 2, 3, 4, e non ultimo dagli artt. 24 e 33 Cost. Ulteriore profilo
d’incostituzionalità investe la violazione dei principi di capacità
contributiva e di progressività sanciti dall’art. 53 Cost., in quanto il
combinato disposto dei commi 8 e 9 della Legge 2012, n° 247, collegando
l’iscrizione alla Cassa di Previdenza e Assistenza Forense alla semplice
iscrizione all’Albo impone a qualunque iscritto all’Albo il pagamento di una
contribuzione indipendentemente da qualunque manifestazione di effettiva
capacità contributiva e quindi di ricchezza, cosicché chi ha da poco iniziato a
svolgere la professione senza avere ancora trovato clienti o chi, per
sfortuna, quell’anno non ha avuto
redditi, deve ugualmente corrispondere una contribuzione (ma COME poi?) pur non
avendo avuto ricavi e, quindi, prodotto redditi tassabili. I
principi costituzionali citati, ma prima ancora il canone di ragionevolezza,
comporta che chi non ha prodotto redditi nulla deve corrispondere. Inoltre, il
sistema delineato dagli articoli scrutinati viola il principio di progressività
poiché stabilisce che chi non ha prodotto reddito deve ugualmente
corrispondere, mentre chi ha percepito redditi professionali minimi subisce un
sacrificio certamente non proporzionale rispetto al reddito prodotto, come
invece impone il principio di progressività. Altro profilo di irragionevolezza
investe, altresì, la previsione dell’art. 21 commi 8 e 9 laddove collega
l’iscrizione alla Cassa all’iscrizione all’Albo, iscrizione quest’ultima che
rappresenta un dato formalistico e non indicativo di una reale capacità contributiva, potendo l’iscrizione all’Albo essere
determinata da vari motivi non collegati alla produzione di reddito. È noto,
infatti, che l’iscrizione all’Albo costituisca un requisito per la partecipazione
al concorso di magistrato ordinario, essendo intervenuta solo nel 2010 la
sentenza della Corte Costituzionale n° 296/2010, la quale ha censurato la
normativa in materia di accesso alla Magistratura ordinaria nella parte in cui
non prevedeva tra i soggetti ammessi al concorso per magistrato ordinario anche coloro che abbiano conseguito soltanto l’abilitazione
all’esercizio della professione forense, anche se non siano iscritti al
relativo Albo degli avvocati. Si è, dunque, verificata la situazione di chi si
è iscritto all’Albo prima del 2010 per godere di un requisito di ammissione al
concorso in Magistratura, ma che nell’incertezza dell’esito del concorso è rimasto iscritto
all’Albo per vari anni, essendo noti i lunghi tempi per la preparazione al suddetto concorso, dipendenti anche alle
cadenze temporali dei bandi e dai tempi di correzione degli elaborati.
L’irragionevolezza della previsione in esame si manifesta in modo ancor più
eclatante se solo si considera che non è possibile stabilire i tempi occorrenti
per l’avvio dell’attività di avvocato, ben potendosi verificare il caso di
colui il quale dopo 10 anni di iscrizione all’Albo non trova, nell’attuale congiuntura economica
per di più, dei canali di clientela che
gli consentano di produrre reddito.
§.
3. Premessa sul problema interpretativo dell’art. 21 Legge n° 247/2012.
Sintesi:
l’iter legislativo è pervenuto al concetto di “continuità professionale”
svincolata dal reddito e all’ampliamento autoritativo (iscrizione ex officio)
del “popolo” di Cassa Forense; la notoria autonomia normativa della quale non può tuttavia giungere fino a derogare o
abrogare norme costituzionali o internazionali dalle prime richiamate.
E’ qui esposto sommariamente l’iter
legislativo che ha condotto alla formulazione della normativa impugnata e le “criticità”
legate alla autonomia normativa di Cassa Forense e i suoi limiti. Occorre
premettere che il progetto di riforma della professione forense (14 luglio
2009) prese le mosse dal CNF, il quale si proponeva di portare a soluzione in
tempi brevi l’annoso problema della enorme proliferazione del numero dei legali
in Italia, (dei quali, peraltro, essi non hanno alcuna colpa avendo superato un
regolare Esame di Stato notoriamente molto difficile). Il progetto introduceva,
per l’esercizio della professione, il “nuovo” requisito della “continuità”,
e – in difetto di quest’ultimo – la cancellazione amministrativa (d’ufficio)
dall’Albo con l’espulsione dalla professione. Concetto mutuato dalla Legge n°
576/80, la quale in campo previdenziale è la c.d. “continuità” che ha,
ormai da più trent’anni, sottratto all’avvocato iscritto a Cassa Forense l’anno
contributivo nel caso in cui costui, pur avendo versato contributi “minimi”,
non ha raggiunto e mantenuto (sia pure con qualche temperamento) tetti
determinati dalla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, sia come
reddito netto che come volume d’affari (c.d. “continuità previdenziale”),
implicando, quindi, la perdita del diritto alla pensione. Lo strumento di
controllo per verificare la situazione di tutti gli iscritti all’Albo è
l’obbligo di trasmettere annualmente i dati fiscali a Cassa Forense per mezzo
di un apposito documento (denominato “mod. 5”), strumento rimasto
tranquillamente in vita anche dopo l’introduzione dell’art. 18 Legge n° 241/90
e tuttora vigente nonostante la possibile e telematica acquisizione di tali
dati direttamente dall’Anagrafe Tributaria. Tali “tetti”, in origine bassi,
sono notoriamente aumentati a livello esponenziale perché fondati sul calcolo
della media “dei più alti redditi” e non sulla media di tutti i redditi
(alcuni avvocati hanno guadagnato negli ultimi 30 anni sempre di più). Ne è
scaturito che, nel corso del tempo, molti sono stati espulsi dal sistema di
Cassa Forense, perché – a causa da un lato della progressiva restrizione del
settore contenzioso (tipico campo operativo degli avvocati) e dell’aumento
della concorrenza dall’altro (visto il regolare, annualmente fatidico,
svolgimento degli Esami di Stato) – hanno finito con l’accumulare tanti di
quegli anni di inutile contribuzione (ovvero al disotto dei parametri) che,
alla fine, si sono avvalsi della norma che consentiva loro di iscriversi in
alternativa all’INPS, mantenendo così una contribuzione “silente”.
(Peraltro, qualora costoro avessero superato i “parametri”, erano
obbligati per Legge a re-iscriversi a Cassa Forense, qui mantenendo peraltro –
con ogni probabilità – la contribuzione “silente”, a causa della
trascorsa discontinuità previdenziale). Per un certo tempo ha avuto vigore la
norma originaria che consentiva agli “esodati” di recuperare almeno in
parte i contributi versati. Successivamente questa norma è stata soppressa. Il
progetto di Riforma Forense, presentato alla Commissione Giustizia del Senato,
nelle precedente Legislatura, (denominato progetto “Mugnai-Alpa”) ha
trasformato la continuità “previdenziale” da condizione per la
validazione dell’anno contributivo a condizione vera e propria per
l’esercizio della professione forense, affidando ai Consigli dell’Ordine il
potere di “bonifica” non solo per nuovi iscritti, ma anche per coloro
che erano iscritti prima. Questi ultimi, per apposita norma transitoria,
avrebbero avuto soli tre anni per mettersi al passo con il “nuovo requisito”.
In sede parlamentare tale cancellazione “amministrativa” è stata sostituita
da quella “disciplinare” perché è stato introdotto un procedimento nel
quale l’avvocato “poco produttivo” viene chiamato in contraddittorio a
discolparsi, fornendo giustificazione del proprio stato e poi cancellato
dall’Albo ex art. 21 comma 1 Legge n° 247/2012 e Relativo Regolamento in via di
approvazione da parte del Ministero di Giustizia. Nell’ultimo passaggio del ddl
in Parlamento, si sono addensati i sospetti che la norma, (per quanto
logicamente collegabile al capzioso ragionamento che l’avvocato “minore”
sarebbe “poco esercitato” e quindi pericoloso per il Cliente), fosse in palese
conflitto con i principi di non discriminazione e libera concorrenza contenuti
in varie norme di diritto internazionale e forse anche lontana dall’art. 3, 2°
comma della Cost., per cui si è arrivati a due modifiche fondamentali:
1. Il concetto di continuità (prima
previdenziale, poi divenuta professionale) è stato disancorato da qualsiasi
riferimento al reddito (quindi, si presume, a qualsiasi riferimento economico)
e la determinazione rinviata ad apposito Provvedimento del Ministero di
Giustizia;
2. L’iscrizione all’Albo è divenuta –
automaticamente – anche iscrizione al sistema di Cassa Forense, sistema in cui
tutti debbono rientrare, anche quelli che, esercitando un diritto al tempo
legittimamente riconosciuto, ne erano usciti. Anziché costituire per essi, nei
quali rientrano le parti ricorrenti, una gestione autonoma separata, come
avvenuto presso l’INPS, l’art. 21, infatti, impone, in seno a Cassa Forense, un
regime “agevolato” stabile (non transitorio) che, nelle intenzioni “buone”
del legislatore, non dovrebbe precludere né la possibilità di esercitare la
professione, né la possibilità, sia pure teorica, di conseguire un trattamento
pensionistico minimo, mentre dovrebbe essere attuato nel rispetto dell’art. 1
della L. n° 247/2012. La norma, frutto di un evidente compromesso, rappresenta,
quindi, un cambiamento rispetto a quella originaria. In caso opposto
risulterebbe, a parere dei ricorrenti, in contrasto con i principi dell’art. 1,
che, invece, si vogliono rispettati. E quindi, secondo i firmatari del presente
ricorso, meriterebbe allora il vaglio della Consulta. Alla radice del problema
vi è, indubbiamente, la valutazione che inerisce l’autonomia normativa dell’Ente,
nel quadro del D.lgs n° 509/1994, più volte e da più parti riaffermata.
Nell’esercizio di quest’ultima, l’Ente può anche abrogare o modificare norme di
Legge (per tutte: Cass.civ. n° 24202/09). Tuttavia, il Regolamento adottato da
Cassa Forense, esula dai limiti imposti a detta autonomia, in quanto si tratta
di adottare una regolamentazione che riguarda anche chi, iscritto ope legis,
non ha presentato alcuna domanda di iscrizione all’Ente, ovvero se ne è
legalmente cancellato. Solo grazie ad una norma di Legge (l’art. 21 L. n°
247/12 appunto) la Cassa Forense si trova a esercitare il suo potere normativo
“entro più ampi confini” e quindi, pur mantenendo ampia discrezionalità,
è tenuta a rispettare nella propria autonomia le regole che la norma sovraordinata
le impone. Ne consegue che l’art. 21 Legge 247/2012 è “norma sovraordinata
a carattere cogente” (e non
meramente dispositiva), quindi inderogabile dall’Ente per suoi contenuti, che
sono suscettibili ovviamente di opportuna valutazione interpretativa, in senso
conforme all’art. 1 Legge n° 247/2012, alla Costituzione della Repubblica, al
Diritto Europeo, alla normativa e giurisprudenza EDU e CEDU. Comunque, circa i
limiti di detta autonomia normativa, si deve almeno riconoscere che questa
ultima incontra quanto meno gli stessi limiti del Legislatore ordinario, non
certo potendo abrogare o derogare alle norme della Costituzione o quelle di
fonte pattizia internazionale da questa richiamate (art. 117). Il compito
affidato dalla Legge a Cassa Forense non è arduo. Tale compito si appalesa
impossibile. Infatti, l’art. 21 della Legge n° 247/2012 vorrebbe conciliare
l’inconciliabile. Non ci si può nascondere, infatti, che, stante l’attuale
congiuntura economica, almeno 100.000 Colleghi si trovano nella impossibilità
di conseguire un reddito sufficiente ad accantonare un capitale bastevole ad
assicurare (anche secondo il metodo contributivo) un trattamento pensionistico
degno di tale nome. Non è esagerato ipotizzare che, in futuro, verosimilmente,
molte migliaia di colleghi si aggiungeranno a essi. Siamo, dunque, di fronte ad
un dilemma di ordine politico. Da un canto, esiste l’eventualità (a lungo
perseguita dal progetto originario “Mugnai-Alpa”) di subordinare il quotidiano
esercizio della professione di avvocato (che consiste nella difesa dei diritti
dei cittadini nelle aule giudiziarie) a condizionamenti di tipo economico. E
poco importa se il condizionamento potrà consistere nell’imporre il
raggiungimento di un certo reddito e/o volume d’affari (come originariamente
proposto) o nel concorrere obbligatoriamente ad una forte contribuzione
economica per un ente previdenziale come Cassa Forense. Infatti il
condizionamento di tipo economico, sia esso legato al denaro od alla numerosità
dei Clienti, sarà sempre un condizionamento in conflitto con l’art. 3 della
Costituzione, secondo comma, il quale impone alla Repubblica “di rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”, norma questa da leggere certamente in
“combinato disposto” con quanto prevede il successivo art. 4, che sancisce il
diritto-dovere di ogni cittadino “al lavoro o ad una attività o funzione che
concorra al progresso materiale e spirituale della società”. Dall’altro canto,
esiste l’eventualità di lasciare che l’esercizio della professione torni ad
essere libero da condizionamenti estranei alla sua missione più delicata che
non consiste nell’amministrare i condomini, nell’aiutare la giustizia per la
vendita dei beni pignorati, nell’assicurare la curatela dei fallimenti o delle
persone inabili, nell’esercitare le funzioni giudiziarie onorarie, etc., ma
consiste principalmente (è impossibile negarlo) nell’accettare o rifiutare
liberamente (secondo scienza e conoscenza) i casi che vengono sottoposti
all’esame dell’avvocato, al quale si rivolgono i cittadini per la protezione
dei propri diritti nel segreto dello Studio. Ovvio è, però, che negli Studi,
quest’ultimi debbono trovare operatori liberi da condizionamenti, che non li
costringano, nella necessità, a mistificare la verità, o – peggio – ad alterare
la serena applicazione delle norme, in spregio alla verità, alla logica ed alla
giustizia. Non è chi non veda che l’art. 21 della L. n° 247/2012 introduce una
inammissibile distorsione, turbando inevitabilmente il quotidiano esercizio
della professione di avvocato che, per quanto regolamentata, deve restare
libera secondo quanto stabilito dall’art. 33 Cost. sia pure se gravata dai
vincoli deontologici e da numerosi e delicati doveri di carattere
pubblicistico. Ma vi è di più: in quale condizione si troverebbe l‘avvocato,
nel pattuire il proprio mandato, se il cliente fosse consapevole che la perdita
dell’incarico potrebbe significare per l’avvocato la perdita della libera
facoltà di esercitare la professione? Quest’ultimo sarebbe costretto ad
accettare qualunque compenso, anche il meno dignitoso, oppure a imporre il
proprio onorario in forma autoritativa, al termine dell’incarico, secondo una
prassi forse tradizionale, ma sicuramente in contrasto con il principi più
moderni dell’Unione, che prevedono la libera concorrenza e, con essa, la
consapevole scelta tra diversi professionisti, non solo sulla base della fama,
ma anche sulla base del corrispettivo richiesto. La situazione di precarietà e
debolezza del professionista sarebbe poi ancora più aggravata dalle imposte che
si aggiungono al corrispettivo e che qualche cattivo avventore potrebbe invece
invitare ad evadere, stante le circostanze. Il condizionamento economico
che l’art. 21 Legge n° 247/2012 mira ad introdurre parte, inoltre, da un
principio di discriminazione in conflitto con la parità di concorrenza, capace
di diffondersi, come un “virus”, anche negli altri settori economici. Quello
secondo cui chi lavora poco, pur essendo stato giudicato idoneo in un Esame di
Stato, non ha diritto di lavorare affatto. L’”humus” in cui si può diffondere
tale “virus” è particolarmente favorevole, soprattutto nel settore legale. In
questo, infatti, si assommano, da un lato, la crisi economica in cui versa
l’Italia e, dall’altro, la grave crisi che attraversa la Giustizia. Come a
tutti noto, non passa giorno ormai in cui le sedi giudiziarie, (Tribunali,
Giudici di Pace, Tribunali Amministrativi) non si spengano, ormai, come tante
candele al soffio del vento. Ma proprio per questo è necessario che le regole
siano rispettate e che sia lasciato alla libera scelta di ciascuno di
abbandonare o no la partita, senza “forzature” in conflitto con
quell’ordinamento comunitario al quale l’art. 117 della Costituzione ha
sottoposto il Legislatore.
§. 4. Vizio di
violazione di legge.
SINTESI:
Il provvedimento impugnato è tardivo perché adottato dopo la scadenza del
termine di un anno. Nonché illegittimo per eccesso di delega in quanto esso
Regolamento ha operato una revisione dell’intero assetto previdenziale, oltre i
limiti della norma delegante (art. 21, commi 8 e 9, Legge n° 247/2012).
Violazione dell’art. 21 della Legge
n° 247/2012 c. 9, periodo 1°, nonché violazione dell’art. 21 commi 8 e 9 Legge
n° 247/2012 per eccesso di delega, nonché violazione dell’art. 20 del Decreto
Interministeriale 28 settembre 1995 e successive modificazioni.
Il summenzionato articolo di Legge
stabilisce che i minimi contributivi in questione debbono essere “determinati”
entro un anno dalla data di entrata in vigore della Legge (02.02.2013), nella
specie entro la mezzanotte di sabato 1 Febbraio 2014, al più tardi lunedì 3
Febbraio 2014, giusta l’art. 155 C.p.c., come integrato dalla L. n° 263/2005.
Tale termine è stato fissato allo scopo di stabilire una precisa cadenza tra
l’intervento di questo Regolamento “di esecuzione” e quello “di
attuazione” per l’accertamento inerente la continuità professionale di cui
al comma 1. Questo secondo Regolamento – giusta l’art. 1 – comma 3, deve essere
adottato “ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della Legge 23 agosto 1988, n°
400, entro due anni” dal vigore della L. n° 247/2012. Il primo Regolamento,
invece, è soggetto al medesimo “iter” al quale sono stati soggetti anche
gli altri Regolamenti di Cassa Forense, “iter” stabilito dall’art. 3
comma 2 D.lgs n° 509/1994 e che si conclude solo avanti i Ministeri vigilanti.
L’idea è quella di coordinare opportunamente i due interventi nel tempo,
facendo sì che tra di essi vi sia almeno un ragionevole intervallo. Perché,
altrimenti, differenziare i tempi dei due Regolamenti, che ineriscono entrambi
rilevanti aspetti attuativi della Legge di Riforma? Il legislatore ha
trascurato, ma solo da un punto di vista lessicale, il fatto che entrambi i
Regolamenti vedono il proprio ingresso nell’Ordinamento Giuridico condizionato
dall’adozione e pubblicazione di un apposito Atto da parte dei rispettivi
Ministeri competenti. E’ dunque ragionevole ritenere che il termine fissato sia
non meramente ordinatorio, ma decadenziale, proprio per lo scopo di evitare la
sovrapposizione nell’applicazione di normative funzionalmente differenti, l’una
rivolta ad accogliere tutti gli avvocati in seno al sistema previdenziale,
l’altra rivolta a escludere dalla professione (Albo e Cassa Forense).
L’ordinato susseguirsi dei provvedimenti, e l’ordinata realizzazione della
Riforma, infatti, esige innegabilmente il coordinamento dei due interventi. In
un primo tempo il Legislatore prescrive di accogliere – indifferenziatamente –
tutti gli iscritti all’Albo nel campo previdenziale. In un secondo tempo, una
volta definito il primo intervento, prescrive che si proceda all’accertamento
dei requisiti per la permanenza e quindi alla espulsione. Non è ragionevolmente
ammissibile ritenere che, mentre si accoglie nell’ambito della tutela
previdenziale l’iscritto, contemporaneamente si possa considerare il suo
diritto a permanere o meno nel novero degli Avvocati. Affinché tale
coordinamento possa avvenire, tuttavia, non è possibile interpretare la norma
nel senso che il termine di un anno sia stato rispettato sol che sia avvenuta
la semplice “proposta” da parte di Cassa Forense, potendosi prolungare il
procedimento ben oltre nel tempo, in attesa del provvedimento dei Ministeri
vigilanti. Anche perché la “proposta” ha un efficacia meramente interna alla procedura, e la data in cui essa
è avvenuta non può assumere rilevanza per l’esterno, visto che, potendo essere
negata l’approvazione ministeriale, essa è suscettibile di essere ripetuta più
volte fino a raggiungere l’approvazione dei Ministeri Vigilanti. Quindi, la “determinazione”
non può essere che l’ “ultima” proposta (quella che viene finalmente approvata)
che si “identifica” e viene “esternata” con l’Atto Ministeriale. Concludendo,
il concetto di “determinazione”, per quanto collegato alla proposta,
deve riferirsi, necessariamente, all’esito finale del procedimento di
formazione dell’atto normativo, esito che consiste nella pubblicazione
dell’Atto Ministeriale di approvazione del Regolamento sulla G.U.; solo in
questo istante, infatti, la “determinazione” assume carattere certo e
definitivo e ad essa consegue la sua esecutività: prima sarebbe sempre
suscettibile di rettifica, in seguito alle osservazioni dei Ministeri
Vigilanti. Per i motivi di cui sopra, la “determinazione” del
Regolamento impugnato, cioè l’Atto di approvazione, è pervenuta in tempi tardivi,
rispetto a quello fissato dalla Legge, per cui l’Autorità procedente risulta
inequivocabilmente, al tempo di quest’ultimo, ormai del tutto sfornita del c.d.
“potere delegato” dall’art. 21 L. n° 247/2012. Inoltre, il
Comitato dei Delegati di Cassa Forense ha adottato un Regolamento che, oltre ad
individuare le soglie reddituali che danno luogo ad agevolazioni contributive,
ha operato una revisione dell’intero assetto previdenziale, ben oltre i
limiti della norma delegante (art. 21). Il Regolamento de quo, infatti,
appartiene alla categoria delle fonti giuridiche secondarie, con rilevanza
esterna, che, come quelli ministeriali, devono essere conformi alla delega che
con la Legge n° 247/2012, fonte primaria, viene conferita a Cassa Forense. Il
Regolamento si è allontanato decisamente dai limiti che la Legge gli imponeva,
disciplinando ipotesi che con l’art. 21, commi 8 e 9, non hanno alcuna
connessione né logica né giuridica. Il Ministero Vigilante conferma e da atto
dell’eccesso di delega nella formulazione del Regolamento quando scrive: “Con
la delibera in esame, il Comitato dei Delegati ha adottato un Regolamento, che
oltre ad individuare le soglie reddituali che danno luogo ad agevolazioni
contributive, ha operato una revisione dell’intero assetto previdenziale".
(Nota Ministero Lavoro Regolamento art. 21 Legge n° 247/12, All. 5). Si chiede,
quindi, all’Ecc. Collegio di prenderne atto, dichiarando, di conseguenza,
nullo, senza entrare nel merito, il provvedimento impugnato, in quanto tardivo,
nonché illegittimo per eccesso di delega in quanto esso Regolamento ha operato
una revisione dell’intero assetto previdenziale, oltre i limiti della norma
delegante (art. 21, commi 8 e 9, Legge n° 247/2012). In ogni caso, si
chiede, altresì, la declaratoria di annullamento dell’atto impugnato per
violazione dell’art. 20 del Decreto Interministeriale 28 settembre 1995 e
successive modificazioni (All. A), in quanto lo stesso Regolamento per cui è
giudizio risulta inficiato, nel suo iter di approvazione, dalla violazione della
predetta norma. Infatti, il Comitato dei Delegati di Cassa Forense nella seduta
del 20 giugno 2014 (All. B) ha deliberato l’adozione del Regolamento attuativo
ex art. 21, commi 8 e 9,Legge n° 247/2012 in violazione della procedura per
l’adozione o la modifica dello statuto e dei regolamenti (art. 20
Decreto Interministeriale 28 settembre 1995 e successive modificazioni ).
Infatti, l’ordine del giorno della seduta del 20 giugno 2014 prevedeva: “ORDINE
DEL GIORNO Comunicazioni del Presidente; I. approvazione del verbale
della precedente seduta; II. bilancio consuntivo 2013: approvazione; III.
Regolamento per l’erogazione dell’Assistenza: discussione generale ai sensi
dell’art. 20, comma III del Regolamento Generale della Cassa; IV. relazioni dei
Consiglieri di Amministrazione di riferimento sullo stato dei lavori dei Tavoli
Tecnici istituiti presso il Ministero della Giustizia; V. relazioni dei
Coordinatori delle Commissioni Istituzionali; VI. varie ed eventuali. Si da
atto che l’ordine del giorno della seduta è stato integrato con nota del 6
giugno 2014, prot. n° 76079/P, come segue: VII. esame nota del Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali in data 5 giugno 2014 in ordine al
Regolamento ex art. 21, commi 8 e 9 della Legge n° 247/2012”. Tuttavia, alla
luce delle raccomandazioni di cui alla nota ministeriale all’esame del
Comitato, emerge che sono state integrate alcune norme già approvate dal
Comitato dei delegati ed aggiunti alcuni articoli (art. 15 – norma di
salvaguardia). Si rammenta che in sede di approvazione del Regolamento il
Comitato ha stabilito che non potevano essere riaperti i termini per la
proposizione degli emendamenti formulati rispetto ad alcuni articoli già
approvati dal Comitato nella precedente legislatura. Il Comitato dei Delegati
ha, dunque, recepito le raccomandazioni del Ministero del Lavoro, peraltro
aggiungendo al Regolamento già approvato un nuovo articolo, senza rispettare le
previsioni di cui all’art. 20 del Regolamento Generale della Cassa Forense, di
talché la discussione/approvazione avrebbe dovuto essere oggetto di una
specifica seduta del Comitato dei Delegati, che prevedesse peraltro
l’inserimento del relativo argomento all’ordine del giorno in modo da
rispettare le procedure di cui all’art. 20 del Regolamento Generale della Cassa
per modifiche di carattere normativo-regolamentare. Altresì, solo il Plenum del
Comitato dei Delegati avrebbe, comunque, avuto la legittimità di deliberare
l’approvazione del Regolamento attuativo ex art. 21, ma erano assenti 14
Delegati su 80, come si evince dal Verbale della Seduta del 20 giugno 2014.
§. 5. Violazione di legge: 1)
Conflitto del Regolamento con l’art. 21 L. n° 247/2012 interpretato in modo
costituzionalmente orientato. Eccesso e sviamento di potere fra norma delegante
(art. 21 Legge n° 247/2012) e norma delegata (il Regolamento); 2) ULTERIORE
PROFILO DI ILLEGITTIMA SPEREQUAZIONE NEL REGOLAMENTO EX ART. 21 DELLA Legge n°
247/2012 in virtù dell’art. 9, comma 7 (“Le agevolazioni di cui al presente articolo non si
applicano ai contributi dovuti ai sensi degli artt. 3 e 4 del presente
Regolamento e ai titolari di pensione di vecchiaia o anzianità di altri Enti“)
SINTESI:
L’art. 21 prevede per gli avvocati iscritti “ope legis” l’adozione di
contributi minimi speciali (“contributi nuovi ed autonomi”) e non
transitori, i quali debbono essere
differenziati anche a seconda della
preesistente contribuzione per non violare i principi di non discriminazione ed
eguaglianza. Il Regolamento impugnato, invece, sottopone tutti gli avvocati iscritti
“ope legis” alla medesima contribuzione - di tra loro e di tra questi e gli
avvocati che raggiungono o superano i parametri reddituali fissati annualmente
da Cassa Forens - salvo agevolazioni transitorie che, oltre ad essere tali, non
distinguono in base alla preesistente contribuzione avvenuta in favore di Cassa
Forense, penalizzando ingiustamente gli uni a vantaggio degli altri.
Violazione del principio di
eguaglianza e non discriminazione in relazione a quanto previsto dall’art. 21
L. n° 247/2012 comma 9, periodo 2°, nonché dall’art. 1 L. n° 247/2012 e, per
l’effetto, dell’art. 3, 2° comma, Cost.;
4 u.c. Cost., art. 33 Cost., art. 117
Cost.- pacta sunt servanda (quest’ultimo con riferimento all’art. 14 CEDU, del
combinato disposto del Protocollo 12 art. 1 UE con l’art. 18 della Convenzione
di Vienna sul Diritto dei Trattati del
23.5.1969, ratificato dall’Italia con L. n° 12.2.1974 n° 112, nonché con l’art.
21 della Carta di Nizza - 07.12.2000, ora parte integrante del TUE).
L’art. 21 Legge n° 247/2012 prevede:
A - La Cassa nazionale di previdenza
e assistenza forense, con proprio regolamento, determina, entro un anno dalla
data di entrata in vigore della presente Legge,
1. i minimi
contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il raggiungimento di
parametri reddituali,
2. eventuali
condizioni temporanee di esenzione o di diminuzione dei contributi per soggetti
in particolari condizioni,
3. e l'eventuale
applicazione del regime contributivo. (L. n° 247/2012 art. 21 comma 9).
B - Non e' ammessa l'iscrizione ad
alcuna altra forma di previdenza se non su base volontaria e non alternativa
alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. (L. n° 247/2012 art.
21 comma 10).
L’impugnato Regolamento prevede:
1 - Nei confronti di coloro che, alla
data di entrata in vigore del Regolamento, erano già iscritti in un Albo
forense ma non alla Cassa, le agevolazioni contributive di cui all’art. 7,
commi 2 e 3, si applicano senza tenere conto dei limiti di età ivi previsti.
(Art. 12, comma 3).
2 - Privati dei limiti di età,
i commi 2 e 3 dell’art. 7 quindi stabiliscono:
1. Il contributo
soggettivo minimo è ridotto alla metà per i primi 6 anni di iscrizione
alla Cassa (Art. 7 comma 2 I cpv).
2. A decorrere
dall’anno 2014 e, comunque, per un arco temporale limitato ai primi otto
anni di iscrizione alla Cassa, anche non consecutivi, è data facoltà ai
percettori di redditi professionali ai fini IRPEF inferiori a € 10.300, di
versare il contributo soggettivo minimo obbligatorio in misura pari alla metà
di quello dovuto ai sensi dell’art. 7, secondo comma, del presente Regolamento
nei casi ivi previsti, o dell’art. 2, comma 2 del Regolamento dei contributi.
(Art. 9 comma 1). (Vengono valutati in tal caso solo sei mesi al posto un
anno ai fini pensionistici).
3. Le agevolazioni
previste per il contributo integrativo, dall’art. 6, comma 7 del Regolamento
dei contributi, sono estese ad un ulteriore quadriennio mediante la
riduzione alla metà del contributo minimo integrativo. (Art. 7 comma 3)
Restano invariate le percentuali per
il calcolo dei contributi dovuti in autoliquidazione di cui all’art. 2 comma 1,
all’art. 3 commi 1 e 2 e all’art. 4 del Regolamento dei contributi. (Art.7
comma 2, II cpv)
Nell’esaminare, in primo luogo, il
dato letterale, l’art. 21 comma 9 (qui sopra trascritto sub A) individua
due gruppi distinti:
PRIMO GRUPPO: soggetti iscritti senza il
raggiungimento di parametri reddituali (determinati in applicazione della L. n°
576/80);
SECONDO GRUPPO: soggetti in particolari condizioni
(si interpreta che siano donne in stato di gravidanza, ammalati, altrimenti
abili, socialmente fragili ovvero avvocati poveri con reddito nullo o minimale
etc. etc.).
Mentre per il primo gruppo debbono
essere definitivamente stabiliti “minimi contributivi”, evidentemente “tutti speciali” (e non solo alcuni) rispetto a
quelli “generali” fissati per gli altri avvocati (cioè quelli che
raggiungono i parametri reddituali determinati in applicazione della L. n°
576/80), solo per secondo gruppo possono essere stabilite condizioni di
esenzione o di diminuzione dei contributi con caratteristiche precipue di eventualità
e temporaneità. Tali caratteristiche, invece, non competono a coloro
che fanno parte del primo gruppo. Nel Regolamento impugnato, invece, per gli
iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali (determinati in
applicazione della L. n° 576/80), non sono stati stabiliti speciali “minimi
contributivi” connotati dalla stabilità, ma, per quanto svincolati
dall’età, sono state stabilite solo alcune agevolazione transitorie
(cioè legate a periodi di tempo limitati) e comunque limitate solo ad alcune
voci di contribuzione. Quindi, il Regolamento sottopone tutti gli iscritti
- anche alcune delle parti ricorrenti che, per quanto si dirà infra, rientrano
nel secondo gruppo, oltre che nel primo - una volta pervenuti “a regime”,
alla medesima contribuzione, senza differenziare affatto i contributi minimi,
se non in via del tutto transitoria. In questo consiste la palese violazione
della Legge che costituisce uno dei fondamenti della richiesta di
sospensiva indicata nelle richieste finali (fumus boni juris). Al di là
del dato letterale, vi è, però, anche qualcosa di più grave. L’art. 21 Legge n°
247/2012 non ammette per i soggetti che esercitano la professione di avvocato,
l'iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza (se non su base volontaria e
non alternativa) diversa dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza
Forense (Vedasi norma qui riporta sub B). Orbene, tale divieto non può certo
essere interpretato nel senso che sia stato istituito nell’esclusivo e assoluto
interesse di tale Ente Previdenziale, la cui configurazione ed esistenza va
rettamente concepita in funzione amministrativa come rivolta a esclusivo
beneficio dell’utente, il quale, una
volta pervenuto a tarda età, deve poter contare, almeno teoricamente, su un
trattamento pensionistico compatibile con la contribuzione versata. Ciò, a
prescindere, beninteso, dalle modalità organizzative tecnico-contabili che
riportano ai differenti sistemi di calcolo della pensione, (“retributivo”
ovvero “contributivo”). La Corte Costituzionale (Sent. n° 248/1997), in
particolare, ha affermato che la privatizzazione ha lasciato immutato il
carattere pubblicistico dell’attività istituzionale della previdenza e dell’assistenza
svolta, in quanto la modifica avvenuta con il D.gls n° 509/94 è inerente
solo agli strumenti di gestione. Il carattere esclusivo della funzione
attribuito a Cassa Forense implica che tale Ente assuma indubbiamente, per gli
Avvocati, lo stesso identico profilo funzionale dell’INPS, dovendone assolvere
gli stessi compiti previdenziali. La nuova Legge professionale ha sancito,
dunque, un principio fondamentale: tutti gli avvocati, indipendentemente dal
reddito professionale, hanno diritto alla tutela previdenziale. Non potrebbe,
invece, essere accolta la tesi secondo la quale la norma stessa avrebbe voluto
far carico gli Avvocati, che non raggiungono redditi e/o volume d’affari
predeterminati da Cassa Forense, di una contribuzione più gravosa allo solo
scopo precipuo di salvaguardare gli equilibri economico - finanziari dell’Ente
stesso e, nello stesso tempo, penalizzare costoro inducendoli ad abbandonare la
professione, in quanto, da un lato, l’Ente in questione (immutato nella sua
configurazione giuridico-amministrativa) assume piena responsabilità per
l’equilibrio economico finanziario che doveva mantenere con i contributi a suo
tempo prestabiliti, in virtù della preesistente L. n° 576/80, mentre provocare
l’espulsione dalla professione, introducendo per l’avvocato “marginale” un
onere contributivo non ragionevolmente differenziato, significherebbe violare
l’art. 21 là dove esso fa divieto di introdurre, per condizionare l’esercizio
stesso della professione, discriminazioni (anche indirette) in base al reddito.
La tesi qui deprecata urterebbe con la normativa comunitaria che vieta agli
Stati obbligati (tra cui l’Italia) di introdurre discriminazioni (anche
indirette) fra cittadini in base al reddito ed è vincolante per il nostro
Legislatore per essere richiamata dall’art. 117 Cost. e per essere dominante la
regola ermeneutica per la quale l’interpretazione preferibile delle norme
interne (nella specie l’art. 21 L. n° 247/2012) deve essere quella che le ponga
costantemente in armonia con tale normativa (differentemente ponendosi,
pertanto, sia pure in forma subordinata, una grave questione di
costituzionalità). E’ nota, poi, la giurisprudenza del Consiglio di Stato
(Decisione 2 marzo 2010, n° 1220), secondo cui anche la normativa della CEDU, “comunitarizzata”
per effetto del Trattato di Lisbona, dovrebbe oggi essere direttamente
operante nel nostro O.G., senza necessità di alcuna norma di rinvio interna
del nostro Legislatore. La stessa Legge di riforma, infine, premette, all’art.
1, di voler disciplinare la professione di avvocato “nel rispetto dei
principi costituzionali, della normativa comunitaria e dei trattati
internazionali” parafrasando lo stesso art. 117 Cost. Contra, la
normativa introdotta con le agevolazioni transitorie non tiene affatto conto
che la situazione fra i “soggetti
iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali” - avendo, fra
l’altro, Cassa Forense COMPLETAMENTE OMESSO di disciplinare i “soggetti in
particolari condizioni” fra cui rientrano, oltre ai soggetti al di sotto dei
parametri reddituali, alcune delle parti ricorrenti come esposto infra -
determinati in applicazione della L. n° 576/80 e quelli che invece li
raggiungono, vi è grande differenza, e che poi, anche tra i soggetti qui
indicati per primi, vi sono indubbiamente, almeno, tre situazioni
economicamente molto distinte:
PARZIALMENTE RIMBORSATI. Coloro che si sono cancellati da
Cassa Forense per aver perso in precedenza la “continuità ex. L. n° 576/80”, ma
che hanno regolarmente contribuito per un periodo, (che può andare, al massimo,
dal 1980 fino al 2002), in quanto iscritti a Cassa Forense ex L. n° 576/80, ma
che hanno ricevuto, al momento della cancellazione, un parziale rimborso;
NON RIMBORSATI. Coloro i quali si trovano nelle
stesse condizioni del gruppo di cui alla punto precedente, ma che, al momento
della cancellazione, non hanno avuto alcun rimborso o perché è stata abrogata
la norma che attribuiva loro tale diritto, oppure perché hanno anche
ricongiunto periodi assicurativi pregressi ex L. n° 45/90, perdendo, però, con
la cancellazione, la facoltà di aver il rimborso di almeno parte dei contributi
versati (vedasi, per l’art. 8, L. n°
45/90, la Circ. Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale n° 71/91 del
14.05.1991);
MAI ISCRITTI. Coloro che non si sono mai iscritti
a Cassa Forense perché al di sotto dei parametri reddituali annualmente
determinati da Cassa Forense, ed in più, come il ricorrente, si trovano “in
particolari condizioni”
Se è vero, come è vero che i “minimi
contributivi” devono essere stabiliti in modo “speciale” per i
“soggetti iscritti – ope legis - senza il raggiungimento di parametri
reddituali”, l’art. 21 L. n° 247/2012, interpretato in senso costituzionalmente
orientato, cioè nel rispetto del principio di non discriminazione (anche
indiretta), esige, invece, che si faccia adeguata distinzione, nell’imporre “speciali
minimi contributivi” tra i soggetti con maggiore reddito e quelli con
minore, nonché – nell’ambito di questi ultimi - tra le diversissime posizioni
di cui ai nn° 1, 2 e 3 sopra identificate e l’esenzione temporanea e la
diminuzione strutturale e permanente della contribuzione previdenziale per i
“soggetti in particolari condizioni“. Sarebbe, infatti, ingiusto imporre gli
stessi contributi senza tener conto della differenza di reddito (superiore o
inferiore ad €. 10.300) ovvero senza
tener conto di chi non ha mai contribuito a Cassa Forense, di chi abbia invece
contribuito, ma poi ottenuto un parziale rimborso, ovvero di chi abbia contribuito
per un periodo più o meno lungo senza alcun rimborso di quanto versato (L. n°
45/80). Tale ingiustizia è poi aggravata dal fatto che si deve ritenere che ben
pochi (tra coloro che sono ricompresi nei tre gruppi indicati) avrebbero poi la
teorica possibilità di conseguire effettivamente una pensione. A meno che si
voglia privilegiare un trattamento indiscriminato proprio per accentuare il
fine di “sfoltimento” nelle fila degli operatori di settore, aggravando
le perdite economiche subite da alcuni a vantaggio di altri. A chi potrebbe contestare
che “il colpo di spugna” sul passato è legittimato dalla regola “legis
regit actum”, si può ribadire che la preesistente normativa, per quanto
potesse ritenersi ingiusta, poiché concepita solo in funzione previdenziale,
non prevedeva l’automatica cancellazione dall’Albo al momento della
cancellazione da Cassa Forense e, anche consentendo agli interessati
l’alternativa dell’INPS, non implicava una diretta lesione del principio di non
discriminazione dei cittadini-avvocati. Vi sono, altresì, diverse norme che
vietano le ingiuste discriminazioni e sono tutte di rango superiore
rispetto alla Legge ordinaria per cui fuori del campo di autonomia normativa di
Cassa Forense. L’articolo 14 CEDU vieta le discriminazioni «fondate sul
sesso, la razza, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la
nascita od ogni altra condizione». Contiene, dunque, un elenco aperto, che
coincide con le direttive UE ma non è esaustivo. Vero che questo principio si
applica unicamente in combinato agli altri diritti sanciti nella Convenzione,
ove non è protetto in modo espresso il “diritto di poter esercitare
liberamente una professione o un arte”. Tuttavia, la normativa comunitaria
richiamata, ossia il divieto di discriminazione basato sulla ricchezza o sulla
effettiva produzione di un reddito, non si esaurisce però nell’art. 14 CEDU, ma
comprende anche il Protocollo n° 12 della Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, art. 1 che, fu elaborato dal
Consiglio d’Europa per rafforzare le previsioni della CEDU. Questa norma, a
differenza del menzionato articolo 14,
vieta le diseguaglianze in via
del tutto autonoma e si applica, quindi, senza la necessità di un qualsiasi
collegamento con altra disposizione CEDU. Vero che l’Italia non ha ancora
ratificato detto Protocollo, ma lo ha già firmato, (a Roma, il 4.11.2000), con
la conseguenza, ai sensi dell’art. 18 della Convenzione di Vienna sul Diritto
dei Trattati del 23.5.1969, ratificato
dall’Italia con L. n° 12.2.1974 n° 112, che l’Italia deve astenersi da atti
che ne frustrino l’oggetto e lo scopo. Anche l’art. 21 della Carta di Nizza
(07.12.2000) vieta le discriminazioni fondate su vari motivi, tra le quali il
patrimonio. Dopo la modifica dell’art. 6 del Trattato UE avvenuta con il
Trattato di Lisbona (13.12.2007, vigente dal 1°.12.2009) le norme della Carta,
pur non essendo divenute l’hard law dell’UE, come da più parti
auspicato, sono in ogni caso entrate a far parte integrante del Trattato
stesso, con la conseguenza di influire comunque all’interno degli ordinamenti
statuali. Il principio di non discriminazione in particolare, divenuto, quindi,
senza limitazioni, parte integrante dell’ordinamento comunitario e degli
obblighi internazionali, risulterebbe certamente contrastato dall’Italia là
dove la distinzione, introdotta dalla Legge interna, non possegga una
giustificazione, oggettiva e ragionevole. Ovvero là dove la Legge interna non
procedesse a differenziare opportunamente casi dissimili tra loro (c.d. “indiscriminazione
indiretta”). La regola deve, quindi, in primo luogo, perseguire un fine
legittimo e, tra i mezzi impiegati e il fine ricercato, deve sussistere una
ragionevole relazione di proporzionalità. Qui, il fine di contribuzione
previdenziale, esteso ope legis ai fuorusciti e ai soggetti al di sotto
di determinati parametri reddituali e/o “in particolari condizioni“, al fine
della salvaguardia del “sodalizio previdenziale”, ma senza giuste
distinzioni e garanzie effettive per il contribuente, certo non si appalesa
legittimo (in quanto sacrifica anche la regola del nemin laedere),
mentre non esiste la relazione richiesta fra i costi e benefici. Il divieto di
discriminazione, peraltro, è un principio insito anche nella nostra stessa
Costituzione per effetto del combinato disposto degli artt. 3, 2° comma e 33
Cost. Sull’art. 3 il Prof. Sergio Sabetta, così scrive: “L'eguaglianza è
definita da Leibniz come la possibilità di sostituire due termini tra loro
senza che muti il valore del contesto in cui è avvenuta l'operazione, questo
rapporto di sostituibilità traslato nell'ambito giuridico o morale fa sì che un
elemento sulla base di determinate condizioni abbia prerogative o possibilità
non diverse da un altro elemento che si trovi nelle stesse condizioni
(Abbagnano)”. Nel rammentare che “l'art. 3 della Costituzione nel
parlare di eguaglianza a fronte dell'eguaglianza formale introduce una
eguaglianza sostanziale”, il Prof Sabetta così paventa: “il ritorno a
forme di diseguaglianza senza chiari e circoscritti criteri di valutazione, i
quali si riflettono anche sul principio di equità che dal principio astratto di
eguaglianza in parte deriva”. E, quindi, egli sottolinea il pericolo che il
concetto di eguaglianza giunga così a
fondarsi “su pre-concetti che, come tali, hanno una ambiguità ideologica che
in una società tecno-scientifica si tende a rivestire di certezze scientifiche”.
E conclude circa “la necessità etica di una eguaglianza che contemperi gli
interessi individuali e sociali, con il riconoscimento delle ragioni morali.”
Ciò posto, per effetto nella normativa costituzionale richiamata, l’arte
e la scienza sono liberi e l’unico “filtro” costituzionalmente
contemplato è costituito dall’Esame di Stato, il quale può essere liberamente
configurato. L’ostacolo di natura economica, legato alla capacità di
contribuire utilmente per costruirsi una pensione, in difetto trovandosi a
contribuire inutilmente impoverendosi ovvero indebitandosi anche illegalmente,
non è assolutamente previsto dall’art. 33 Cost., anzi è vietato a norma del 2°
comma dell’art. 3, rivelandosi un ostacolo di carattere economico alla
partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. Il contributo,
che assolve la funzione di ostacolo di natura economica, irragionevolmente
imposto, si presenta infine in conflitto con il dovere dei cittadini
(costituzionalmente stabilito) di svolgere, secondo le proprie possibilità e la
propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale
o spirituale della società (art. 4 u.c. Cost.). Inoltre, la violazione
della norma delegante (art. 21 Legge n° 247/2012) si appalesa lampante
allorché, con palese violazione di legge (eccesso e/o sviamento di potere) la
norma delegata (il Regolamento) riconosce alla contribuzione “agevolata”,
disciplinata nel medesimo Regolamento, un periodo di contribuzione di sei mesi
in luogo dell’intera annualità sia ai fini del riconoscimento del diritto a
pensione sia ai fini del calcolo della stessa, ai sensi dell’art. 4, comma 4
del Regolamento per le prestazioni previdenziali. Violazione del principio di
infrazionabilità dell’anno contributivo ai fini previdenziali che viene, in
carenza di norma di Legge, anzi in sua palese opposizione, realizzato dal
Regolamento de quo, quando la Gestione Separata Inps assicurava comunque, di là
dell‘importo contributivo richiesto (in ogni caso proporzionale sempre al
reddito), l’interezza dell’anno contributivo ai fini pensionistici. Non è chi
non veda, tuttavia, come l’art. 21 nel disciplinare, come norma delegante, i
“contributi minimi dovuti” (per i soggetti al di sotto dei parametri
reddituali) si riferisca senza ombra di dubbio alcuno all’interezza dell’anno
contributivo ai fini previdenziali; (tralasciando, altresì, il fatto che
nessuna disciplina di “diminuzione dei contributi minimi dovuti”, ulteriormente
agevolata in modo stabile, è stata, come pure stabilito dal’art. 21, prevista
dal Regolamento per cui è ricorso per i “soggetti in particolari condizioni“).
Inoltre, la previsione normativa dell’art. 21, che novella il sistema normativo
previdenziale forense per chi anteriforma non raggiungesse i parametri
reddituali per l‘iscrizione doverosa alla Cassa Nazionale di Previdenza e
Assistenza Forense, si appalesa come oggettivo sistema normativo in peius, in
quanto nel sistema anteriforma la contribuzione dovuta alla Gestione Separata
Inps era sempre proporzionale al reddito e la mancanza di reddito ovvero la sua
esiguità o nullità era ininfluente sull’esercizio della professione e non
causativa di sanzioni disciplinari ovvero di esodo forzoso dall’Albo. Tale
ostacolo di mera natura economica e censuaria superveniens è incostituzionale,
oltre che ex art. 3 comma 2 Cost., anche ex art. 2 Cost., in quanto la
formazione sociale ordinamento forense (composta degli enti esponenziali degli
avvocati) diventa qualcosa di molto lontano e di diverso da quel corpo
intermedio ove si svolge la personalità (umana e professionale) dell’avvocato,
in primis il suo diritto inviolabile di esercitare la professione forense in
scienza e coscienza quando gli siano richieste le sue prestazioni
professionali, senza colpevolizzazione di sorta rispetto al raggiungimento di
un determinato reddito che è compito estraneo alla difesa in giudizio dei
diritti dei cittadini. Vi è, inoltre, un ulteriore profilo di
illegittima sperequazione nel Regolamento per cui è causa. La Suprema Corte di
Cassazione nella Sentenza n°17892/2014 ha censurato le delibere peggiorative
nei confronti di una sola categoria di assicurati. Il Regolamento in
questione ex art. 9, comma 7, esclude le
agevolazioni ai contributi dovuti per retrodatazione e facoltà di iscrizione
ultraquarentenni, nonché per i titolari di pensione di vecchia o anzianità di
altri enti pensionistici. Ne consegue che senza agevolazioni ben pochi (e
nessuno dei ricorrenti) potranno accedere sia alla iscrizione retroattiva che
ai benefici per gli ultraquarantenni cosi aggravando, in termini pensionistici,
la loro posizione perché arriveranno ai 70 anni senza la anzianità minima
prescritta dei 35 anni e si vedranno liquidare la pensione contributiva
senza integrazione al trattamento minimo dopo aver versato l’
intero contributo integrativo del 4 per cento non sul loro montante ma nella
cassa comune. Inoltre, per parte ricorrente iscritto ope legis alla
Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, non è prevista alcuna
contribuzione agevolata, quantunque temporalmente provvisoria come, viceversa,
stabilito per i suoi Colleghi officiosamente iscritti, ritrovandosi, tuttavia,
egli nella loro stessa identica situazione giuridica (iscrizione ope legis), di
talché egli è tenuto - a norma del Regolamento impugnato - alla contribuzione
ordinaria, superiore al reddito derivante da attività libero-professionale di
avvocato (vedasi allegato Mod. 5), con evidente violazione di Legge (norma
delegante: art. 21), eccesso e sviamento di potere, violazione del principio di
parità di trattamento e di eguaglianza di fronte alla Legge, rafforzando
l’induzione all’autodimissione dall’Albo, nonché con evidente disparità di
trattamento con i pensionati di Cassa Forense che sono esonerati dal pagamento
dei minimi e sono tenuti soltanto, dall'anno successivo alla maturazione
dell'ultimo supplemento della pensione, a corrispondere sul reddito netto
professionale, dichiarato ai fini dell' IRPEF, il contributo soggettivo nella
misura del 7%, fino al tetto pensionabile, e in quella del 3%, sulla parte di
reddito eccedente il medesimo. Inoltre, l’induzione alla “rottamazione” degli
operatori marginali è riconosciuto dallo stesso Ministero Vigilante, allorché nella
Nota (All. 5) riconosce la natura e la finalità di “rottamazione” del
Regolamento impugnato:
Altresì, il quesito sulla
"legittimità" di una norma di Legge può essere considerato
ammissibile soltanto se ci si riferisca alla conformità della norma stessa ad
una norma di fonte superiore. In tal caso la norma è l'art. 21 della L.
247/2012. Si tratta, dunque, di appurare se tale norma sia conforme o no alla
Costituzione. Tuttavia, bisogna precisare a quale norma: la questione non è
solo inerente la costituzione vincolata di un rapporto previdenziale, ma
l'introduzione di tale costituzione vincolata come condizione per l'esercizio
della professione di avvocato. La domanda allora diventa: "'E' conforme
all'art. 33 Cost. subordinare l'esercizio di una professione, oltre che ad un
Esame di Stato, alla costituzione di un rapporto previdenziale? (E' questa la
novità rispetto all'ordinamento preesistente che pure imponeva comunque la
costituzione di un rapporto previdenziale con CF oppure con INPS). Ancora: è conforme
all'art. 33 della Cost. l'introduzione di specifici requisiti (continuità,
prevalenza etc. ex art. 21 comma 1 Legge n° 247/2012) come condizione
"sine qua non" è lecito esercitare la professione? L'introduzione di
condizioni e requisiti ULTERIORI rispetto all'Esame di Stato previsto dall'art.
33 è costituzionalmente ammissibile? E' costituzionalmente ammissibile
l'introduzione di tali condizionamenti non solo a chi si iscrive dopo l'entrata
in vigore degli stessi, ma anche a chi era iscritto prima? Altresì, con
riferimento al principio di pari concorrenza ed opportunità tra gli operatori
di un certo settore (che il nostro legislatore è tenuto a rispettare ai sensi
dell'art. 117 Cost.), è compatibile una siffatta "riforma" con quanto
impongono le norme comunitarie sulla "libera" concorrenza? L’art. 21
commi 1 e 2 (“Art.
21.(Esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente e
revisione degli albi, degli elenchi e dei registri; obbligo di iscrizione alla
previdenza forense) 1. La permanenza dell'iscrizione all'Albo è subordinata
all'esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e
prevalente, salve le eccezioni previste anche in riferimento ai primi anni di
esercizio professionale. Le modalità di accertamento dell'esercizio effettivo,
continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite
e le modalità per la reiscrizione sono disciplinate con regolamento adottato ai
sensi dell'articolo 1 e con le modalità nello stesso stabilite, con esclusione
di ogni riferimento al reddito professionale. 2. Il consiglio dell'ordine, con
regolarità ogni tre anni, compie le verifiche necessarie anche mediante
richiesta di informazione all'ente previdenziale), appare, inoltre,
contraddittorio e ictu oculi incostituzionale ex artt 3 e 33 Cost.,
allorché statuisce l’ininfluenza del reddito professionale ai fini della c.d.
bonifica Albo ma poi prescrive che il Coa territoriale ai fini dello
sfoltimento richieda informazioni all’ente previdenziale (evidentemente
per conoscere l’adempimento o meno dell’obbligazione previdenziale da cui
desumere l‘effettività della professione). Profilo previdenziale, tuttavia, che
MAI condiziona l’esercizio della professione in tutte le altre realtà
lavorative ordinistiche e/o collegiali.
§. 6. Violazione di legge: conflitto
del Regolamento impugnato con il principio comunitario (TUE) sulla libera
concorrenza.
SINTESI:
Il Regolamento viola il principio di pari concorrenza tra gli operatori del
settore (c.d. “workable
competition”) introducendo, con uno “ostacolo significativo ad una
concorrenza effettiva”, una penalizzazione ingiusta per alcuni ed un indebito
vantaggio per altri.
Violazione del principio di libera
concorrenza sancito con gli artt. 101 e 102 TFEU.
La ingiusta discriminazione, di cui
al precedente paragrafo, è accentuata poi dal fatto che la ricchezza sottratta
ai ricorrenti che si trovano in condizioni minori, ma “resistono sul mercato”,
viene impiegata per migliorare diametralmente e senza un ragionevole motivo la
situazione economica di tutti gli avvocati che percepiscono invece maggiori
guadagni, offrendo così loro un “premio” del tutto irragionevole, che
altera la concorrenza a loro esclusivo vantaggio, consentendo loro, sia pure
potenzialmente, introiti maggiori legati (per l’id quod plerumque accidit)
all’ascesa inevitabile dei prezzi. Ne scaturisce, quindi, che l’obbligo di
contribuire comunque a un Ente previdenziale, senza la possibilità nemmeno
teorica di costruirsi una pensione, è consentito nel nostro ordinamento solo
nel caso in cui non risulti ostacolo all’esercizio di quella scelta personale,
legittimata dal superamento dell’Esame di Stato, unica legittima barriera posta
per l’accesso allo svolgimento legale della professione forense. Orbene, il Regolamento
in questione non rispetta, così come concepito, le finalità imposte dall’art.
21 L. n° 247/2012, inteso secondo un’interpretazione costituzionalmente
orientata, in quanto costruisce un sistema dove, per molti contribuenti, e
segnatamente per le parti ricorrenti, il
puntuale adempimento dell’obbligo di contribuzione non è adeguato alla loro
situazione economica, non consentirà
loro di recuperare nel tempo la contribuzione mancante e li destinerà, in ogni
caso, al momento del pensionamento, qualora resistessero, a vedersi liquidare
la pensione contributiva non integrata al trattamento minimo già prevista nel
regolamento di Cassa Forense. Da ciò si evince che il meccanismo che aggira il
divieto di alterare la concorrenza tra coloro i quali, superato l’Esame di
Stato previsto dall’art. 33 Cost., sono iscritti all’Albo ed esercitano la
professione, è così realizzata (cfr. Legge n° 287/1990, all'art. 1): a) la
prima operazione consiste nel rendere un “unicum” iscrizione
all’Albo-iscrizione alla Cassa Forense, nel presupposto (surrettizio ed
infondato) che per tutti gli avvocati sia ipoteticamente possibile pervenire ad
un trattamento previdenziale; b) la seconda consiste, dato il carattere
surrettizio ed infondato del presupposto, nello scatenare una condizione di
sfavore per gli avvocati “minori”, che consiste nell’ obbligo di
contribuzione indiscriminato, sulla base di un importo fisso, solo
transitoriamente ridotto, ma che – nel corso degli anni – diventa pari alla
contribuzione generale, sì da “accompagnare” fuori dal mercato chi, come
è per le parti ricorrenti, pur potendovi rimanere per capacità scientifica, non
possono trovare alcun equilibrio economico tra i costi-benefici della
situazione coatta, la quale certamente non serve ad assicurare loro né una
pensione né una forma di ammortizzazione sociale. Nella sostanza il diritto di
restare sul mercato ha un “costo” particolare per l’operatore marginale,
che serve unicamente come “filtro di sbarramento”, il quale impedisce
che gli avvocati possano competere tra loro ad armi pari e sulla base delle
rispettive capacità e possibilità; c) la terza operazione, intuitiva e
potenziale come risvolto concorrenzialmente negativo, consiste nell’aumentare i
prezzi delle prestazioni legali, una volta ridotto sensibilmente il numero di
operatori del settore, con danno verso l’utenza. L'accertamento degli effetti
restrittivi non è strettamente necessario ai fini della constatazione della
violazione della normativa concorrenziale nelle ipotesi in cui, come nel caso
di specie, risulti accertato che le regole del “sodalizio previdenziale”,
introdotte con il Regolamento impugnato, abbiano per oggetto la lesione della
concorrenza. Nel Regolamento è violato, quindi, indipendentemente dall’art. 21
della L. n° 241/2012, un vero e proprio diritto che, nell’Unione Europea, è
attribuito a ciascun “imprenditore” nel senso inteso dal Trattato di
Roma. Ci si riferisce agli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea (corrispondenti agli art. 81-89, nella versione previgente
del Trattato), che riguardano le normative nazionali in materia di attività d’
“impresa”. E’ noto, infatti, che, per il TUE, è “imprenditore”
anche il professionista, cittadino europeo, che ha diritto a concorrere sul
mercato in condizioni di pari opportunità e non discriminazione rispetto a
color che offrono gli stessi servizi al pubblico. La Corte di Giustizia Europea
ha, di conseguenza, definito la nozione di impresa per comprendere “qualsiasi
entità che eserciti un'attività economica, a prescindere dallo status giuridico
di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento”. Non osta certo,
anche per gli avvocati “la natura complessa e tecnica dei servizi da loro
forniti e la circostanza che l'esercizio della loro professione sia
regolamentato”. Il “premio” assicurato dal meccanismo introdotto con
il Regolamento impugnato va a favore non solo di chi, essendo pensionato, non
svolge più la professione di avvocato, ma anche a favore di chi svolge la
professione con maggiori guadagni, ma sarebbe tenuto ad una contribuzione
previdenziale maggiore in mancanza del premio. Vi è dunque uno
squilibrio non compensato, peraltro, dalle c.d. “agevolazioni”: infatti,
queste, che sono poi solo transitorie, non impediscono alla contribuzione – sia
pur ridotta – di restare inutile, mentre favoriscono certamente la posizione di
chi, godendo di maggior guadagni, contribuisce comunque utilmente, potendo
raggiungere il traguardo pensionistico. Lo scopo “punitivo” verso chi,
avendo redditi minori, si è avvalso del diritto di uscire dal sistema della L.
n° 576/80 e che, quindi, dovrebbe ora ricominciare a contribuire (a vuoto) o
lasciare la professione, è del tutto irragionevole e non può essere “derivato”
dall’art. 21 comma 9 (rettamente interpretato), in quanto il soggetto in
questione è già “punito” per non poter conseguire alcuna pensione (a differenza
dei suoi colleghi, rimasti iscritti a Cassa Forense), e per aver perduto, (per
i gruppi 1 e 2) irreparabilmente, quanto eventualmente già versato alla Cassa
(quando vi era iscritto) prima dell’entrata in vigore della Riforma! Come noto,
inoltre, il nuovo regolamento comunitario sulle concentrazioni, adottato dal
Consiglio il 16 dicembre 2002 esalta il nuovo concetto di “ostacolo
significativo ad una concorrenza effettiva”. La disciplina della
concorrenza non riguarda solo i comportamenti delle imprese, ma anche quei
comportamenti degli Stati Membri che, direttamente o indirettamente, alterano
o contribuiscono ad alterare le condizioni di concorrenza tra le imprese.
Si tratta dunque del divieto di adottare o mantenere in vigore misure, anche
di natura legislativa o regolamentare, che possano rendere praticamente
inefficaci le regole di concorrenza applicabili alle imprese. Vero che
le “imprese” che svolgono effettivamente un ruolo di interesse generale o
servizio pubblico possono essere escluse dall’applicazione delle regole di
concorrenza (Art. 106 – 2 TFEU) . Ma tale esclusione è lecita solo nella misura
in cui le limitazioni alla concorrenza che ne derivano siano strettamente
funzionali all’assolvimento degli obblighi del servizio pubblico e non si
vede, sotto il profilo logico-giuridico, quale connessione possa avere mai con
la difesa in giudizio dei diritti dei cittadini (innegabile funzione propria
dell’avvocato) con l’obbligo per tutti gli avvocati, in quanto tali, di
partecipare, forzosamente ed inutilmente per loro, ad un “sodalizio
previdenziale”. Il Regolamento impugnato introduce chiaramente un “regime”
che, costituendo ostacolo significativo a una concorrenza effettiva, è
suscettibile di produrre effetti orizzontali non coordinati che possono creare
ostacoli significativi a una concorrenza effettiva nel mercato dei servizi
legali. La fattispecie è ragguagliabile a un comportamento di una o più “imprese”
che sfruttano posizione dominante per limitare concorrenza (ossia, l’
art. 102 TFUE).
Si consideri quanto stabilito in
questa Decisione:
Sentenza del Tribunale di primo grado
(Quinta Sezione ampliata) CG del 6 giugno 2002. - Airtours plc contro
Commissione delle Comunità europee. -
Concorrenza - Regolamento (CEE) n°
4064/89 - Decisione che dichiara una concentrazione incompatibile con il
mercato comune - Ricorso di annullamento - Mercato rilevante - Nozione di
posizione dominante collettiva - Prova. - Causa T-342/99.
(Raccolta della giurisprudenza 2002
pagina II-02585)
“La Commissione ha ammesso nelle
sue memorie, che, perché possa crearsi una situazione di posizione dominante
collettiva così definita, sono necessarie tre condizioni:
in primo luogo, ciascun membro dell'oligopolio
dominante deve poter conoscere il comportamento degli altri membri, al fine di
verificare se essi adottino o meno la stessa linea di azione. Come la
Commissione espressamente riconosce, non basta che ciascun membro
dell'oligopolio dominante sia cosciente del fatto che tutti possono trarre
profitto da un comportamento interdipendente nel mercato, ma deve anche
disporre di un mezzo per sapere se gli altri operatori adottano la stessa
strategia e se la mantengono. La trasparenza nel mercato dovrebbe perciò essere
sufficiente per consentire a ciascun membro dell'oligopolio dominante di
conoscere, in modo sufficientemente preciso ed immediato, l'evoluzione del
comportamento nel mercato di ciascuno degli altri membri;
in secondo luogo, è necessario che la
situazione di coordinamento tacito possa conservarsi nel tempo, ossia deve
esistere un incentivo a non scostarsi dalla linea di condotta comune nel
mercato. Come fa osservare la Commissione, solo se tutti i membri
dell'oligopolio dominante tengono un comportamento parallelo, essi possono
approfittarne. Tale condizione integra quindi la nozione di ritorsioni in caso
di comportamento che devia dalla linea di azione comune. Le parti condividono
qui l'idea che perché una situazione di posizione dominante collettiva sia
sostenibile, bisogna che ci siano fattori di dissuasione sufficienti ad
assicurare con continuità un incentivo a non scostarsi dalla linea di condotta
comune, il che vale a dire che bisogna che ciascun membro dell'oligopolio
dominante sappia che un'azione fortemente concorrenziale da parte sua diretta
ad accrescere la sua quota di mercato provocherebbe un'azione identica da parte
degli altri, di modo che egli non trarrebbe alcun vantaggio dalla sua
iniziativa (v., in
tal senso, sentenza Gencor/Commissione, cit., punto 276); in terzo luogo,
per dimostrare adeguatamente l'esistenza di una posizione dominante collettiva,
la Commissione deve parimenti provare che la reazione prevedibile dei
concorrenti effettivi e potenziali nonché dei consumatori non rimetterebbe in
discussione i risultati attesi dalla comune linea d'azione”. Orbene, il “sodalizio
previdenziale” (come è stato giustamente definito), strutturato secondo il
combinato disposto art. 21 L. n° 247/2012 e Regolamento delegato, realizza ai danni
dei ricorrenti tutte e tre le condizioni indicate nella suesposta sentenza.
Infatti, tutti gli operatori sono in grado di conoscere l’entità dell’obbligo
contributivo che costituisce, dopo un breve periodo transitorio, una effettiva
“soglia di sbarramento” per poter permanere nel mercato stesso. Il
coordinamento permanente previsto dalla seconda condizione è poi costituito
dalle decisioni dell’Ente, che possono anche accrescere tale soglia secondo le
decisioni del proprio organo deliberante (Comitato dei Delegati,) dal quale
promana la volontà degli operatori più forti ed influenti dell’Ente stesso,
organizzato come Fondazione privata (cfr Sentenza CG Bayer T-41/96). La terza
condizione si avvera per l’effetto dissuasivo a permanere nel mercato nel caso
in cui l’operatore si venga a trovare sotto la soglia: infatti, in questo caso,
è costretto ad uscire non solo dal “sodalizio previdenziale”, ma
dall’esercizio della professione, se vuole evitare l’”handicap” così
artificiosamente costruito. E’ appena il caso di osservare, poi, che, se deve
ritenersi illegittimo “ogni ostacolo frapposto, al di fuori delle previsioni
della normativa comunitaria, al riconoscimento, nello Stato [ospitante], del
titolo professionale ottenuto dal soggetto nello Stato [di origine]” in
tema di avvocati “stabiliti”, non si vede come si possa giustificare,
anche dal punto vista comunitario, un ostacolo frapposto all’esercizio dalla
professione per gli avvocati italiani, i quali dovrebbero sopportare detto “handicap”
anche qualora volessero svolgere l’attività in altro Pese UE (direttiva
2006/123/CE “Bolkstein”). Pertanto, la restrizione della concorrenza che ne
deriva estende fatalmente i propri effetti dal territorio dell’Italia a quello
dell’UE. In buona sostanza, l'Italia, con il Regolamento di esecuzione
dell'art. 21 comma 9 della L. n° 247/2012, ha ancorato l'esercizio della
professione forense alla partecipazione obbligatoria ad un "sodalizio
previdenziale", ove le decisioni della Cassa Forense e del Comitato elettivo
che la governa influenzano in modo determinante il mercato dei servizi legali
per tutti coloro che sono iscritti agli Albi degli avvocati, non potendosi
questi sottrarre al “sodalizio” se non abbandonando la professione. Tale
"ancoraggio" non trova alcuna giustificazione logica poiché manca il
nesso tra la difesa in giudizio dei diritti dei cittadini (tipico campo di
azione dei servizi legali) e la opportunità di ottenere un trattamento
pensionistico. Ammesso, ma non concesso, che il sistema previdenziale sia veramente
in grado di offrire tale opportunità. La partecipazione obbligatoria al
"sodalizio previdenziale" implica, con il Regolamento impugnato,
mediante il pagamento obbligatorio di un importo fisso uguale per tutti (dopo
un transitorio periodo di agevolazioni provvisorie) un evidente
"handicap" per gli operatori economici i quali, stando ai margini
della concorrenza, saranno costretti ad uscire dal mercato, provocando in tal
modo l'artificioso ed ingiustificato aumento dei prezzi delle prestazioni
legali. La funzionalità di tale "handicap" allo scopo previdenziale è
puramente apparente, essendo esclusa per molti operatori (circa 87.000 su
230.000 circa), tra i quali sono i ricorrenti, la possibilità di conseguire
(anche solo teoricamente) un effettivo beneficio pensionistico. Inoltre, la
possibilità conferita al Comitato dei Delegati di accrescere tale
"handicap" nel corso del tempo è suscettibile di aggravare il
fenomeno di diminuzione di operatori sul mercato dei servizi legali e,
conseguentemente, l’aumento ingiustificato dei prezzi delle prestazioni.
L’attuale sistema dei "parametri" è notoriamente già atto a
compensare, al di fuori di un accordo intervenuto tra le parti, i servizi
legali in misura molto più elevata di prima. Il turbamento per il mercato dei
servizi legali sarà tale da produrre sicuramente effetti disastrosi all'interno
del mercato dell'Unione, in considerazione della dimensione del fenomeno, che
in tempi brevi si amplierà ben oltre la sfera presumibile iniziale di 87.000
unità. L'art. 21 comma 9 della L. n° 247/2012 sta favorendo la violazione degli
art. 101 e 102 TFUE nella parte in cui consente la formazione di una posizione
dominante collettiva, guidata e controllata da un sistema centralizzato che fa
capo proprio a una forma associativa degli operatori del settore (Cassa
Forense), capace di scatenare un aumento dei prezzi dei servizi legali con la
riduzione artificiosa delle "imprese" di settore dei servizi legali.
Non è chi non veda che gli utenti-cittadini dell'UE che in futuro avranno bisogno
in Italia di servizi legali, saranno probabilmente assoggettati a prezzi molto
superiori, non certo rispondenti alla reale efficacia e funzionalità del
sistema giudiziario italiano. Appare, quindi, fonte di forte perplessità quanto
pubblicamente affermato da esponenti di vertice dell’avvocatura sia sulla
marginalità del danno economico per l'Unione, sia per le asserite ridotte
proporzioni del fenomeno, che “sarebbe limitato”. E' notorio, invece, che in
Italia vi siano circa 230.000 operatori di settore di cui almeno 56.000 erano
"esterni" al "sodalizio previdenziale". A questi vanno
aggiunti, però, altre 52.000 unità circa, "interne" al sodalizio
previdenziale, ma del tutto incapaci di far fronte agli obblighi economici che
questo comporta. Si tratta, quindi, di almeno 110.000 operatori che, facendo
concorrenza sia pure limitata, riducono attualmente il costo dei servizi legali
con conseguente beneficio per i consumatori. La loro scomparsa dal settore
comporterà un primo consistente aumento dei prezzi. Un ulteriore aumento, poi,
sarà determinato da eventuali probabili decisioni del Comitati dei Delegati,
organo eletto nella più ristretta cerchia degli operatori superstiti, con
successivo incremento dei prezzi. La "fase" descritta potrà ripetersi
più volte nel tempo, implicando così un effetto oltremodo dannoso. Desta,
pertanto, meraviglia il fatto che il mercato dei servizi legali italiani possa
essere definito, per ciò solo, "mercato interno", in quanto - in tal
caso - ciò equivarrebbe ad escludere gli avvocati italiani (come operatori
economici del settore) alla soggezione alle norme e alle direttive UE volte a
garantire la piena libertà di concorrenza. Sul tema dello squilibrio ingiusto
nella concorrenza ingenerato dal Regolamento impugnato, comunque, l’Ecc.mo TAR
vorrà rivolgersi, se ritenuto opportuno, ai sensi dell’articolo 267 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TF UE), alla Corte di Giustizia
Europea per ottenere una pronuncia sulla corretta interpretazione del diritto
dell’Unione, mediante la procedura di rinvio pregiudiziale, richiedendo
se – ai fini della libera concorrenza – debba essere ritenuto per uno
Stato membro legittimo introdurre per tutti gli avvocati il descritto sistema
previdenziale obbligatorio, legato alla impossibilità di sottrarsi ad una
perdita economica irragionevole solo uscendo definitivamente dal mercato e
perdendo il diritto di esercitare la professione, ovvero se sia
corretto ancorare – nei termini descritti – il diritto di esercitare la
professione di avvocato (normalmente acquisito secondo le correnti leggi
nazionali) all’iscrizione ad un unico sistema previdenziale, “autogestito”,
in forma monopolistica, unicamente dalla Cassa Nazionale di Previdenza forense.
In proposito la Corte di Cassazione con Sentenza n° 19301 del 12 settembre 2014
scrive: “A tale riguardo va ricordato che, ormai da tempo, questa Corte -
facendo applicazione dell'indicato criterio ermeneutico dell'interpretazione
del diritto nazionale in conformità con il diritto UE come interpretato dalla
CGUE - ha affermato che "si devono considerare inclusi nell'ambito dello
jus superveniens che travalica il principio di diritto enunciato dalla sentenza
di annullamento e che deve essere applicato nel giudizio di rinvio anche i
mutamenti normativi prodotti dalle sentenze della Corte di giustizia UE, che
hanno efficacia immediata nell'ordinamento nazionale" (vedi, per tutte:
Cass. 9 ottobre 1998, n° 10035; Cass. 24 maggio 2005, n° 10939). Ne consegue
che, dato l'evidente contrasto tra il principio di diritto enunciato nella
sentenza rescindente e i principi affermati dalla CGUE nella su menzionata
sentenza e ivi considerati "ad effetto diretto", la Corte
territoriale, in applicazione dell'indirizzo giurisprudenziale innanzi indicato
avrebbe dovuto risolvere la controversia applicando tali principi, anziché la
regula juris posta nella sentenza rescindente e ormai travolta dai principi
stessi“.
§. 7. Violazione di
legge: vizio di eccesso di potere.
Sintesi:
Lo scopo di applicare l’art. 21 comma 9 si appalesa fittizio: il vero fine del
provvedimento consiste nel favorire le dimissioni degli avvocati minori,
imponendo a questi ultimi la stessa contribuzione degli altri, sia pure dopo un
certo numero di anni e comunque una contribuzione “silente”.
Il vizio in questione (“détournement
de pouvoir”- L. n° 241/90 art. 21 octies) deriva inevitabilmente
dall’intento fuorviato del provvedimento impugnato di ottenere subito, per
altra via, ciò che era originariamente previsto dall’art. 19 del ddl originario
il quale, senza nulla prevedere in merito all’iscrizione obbligatoria a Cassa
Forense di tutti gli iscritti agli Albi, si limitava a disporre:
“1. La permanenza dell’iscrizione
all’Albo è subordinata all’esercizio della professione in modo effettivo,
continuativo,abituale e prevalente, salve le eccezioni previste anche in
riferimento ai primi anni di esercizio professionale. Le modalità di
accertamento dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente
della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione
sono disciplinate con regolamento del CNF che preveda anche eventuali criteri
presuntivi, sentita la Cassa Nazionale di assistenza e previdenza forense. Può
costituire criterio presuntivo il livello minimo di reddito in vigore per la
Cassa Nazionale di assistenza e previdenza forense per l’accertamento
dell’esercizio effettivo e continuativo della professione”. E’ stato già
esposto che, invece, la disposizione in parola, è stata promulgata dal
legislatore con contenuto poi molto diverso, in quanto “le modalità di
accertamento dell'esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente
della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione
sono disciplinate con esclusione di ogni riferimento al reddito professionale”
(Art. 21 L. n° 247/2012) Corollario logico è che non può essere accettato,
invece, il principio secondo cui possa permanere nella professione soltanto chi
sia in grado, per il reddito percepito, di costruirsi una pensione. Detto
Regolamento non si prefigge, però, l’obiettivo di assicurare un’effettiva
copertura previdenziale, quanto di favorire l’uscita dal “mercato” della
professione di coloro i quali, guadagnando poco o nulla (per fatto
incolpevole. Chi infatti non vorrebbe guadagnare?), non siano in grado di
far fronte agli sproporzionati oneri previdenziali, previsti in maniera fissa e
non commisurata al reddito prodotto. Solo coloro i quali raggiungono un
certo reddito corrispondono utilmente i contributi imposti, mentre coloro i
quali non percepiscono un reddito adeguato non corrispondono utilmente il
contributo e, per non peggiorare, come le parti ricorrenti, - con il meccanismo
della creazione ex lege della qualità di debitore - la propria posizione
economica è comunque costretto a uscire dal mercato, cancellandosi dall’Albo e,
quindi, da Cassa Forense. Ne è riprova anche l’art. 12 che dispone per
coloro che, “nelle more dell’approvazione Ministeriale del presente Regolamento
e, comunque, non oltre 90 giorni dalla sua entrata in vigore, procedessero alla
cancellazione da tutti gli Albi professionali prima della comunicazione della
formale iscrizione alla Cassa, in deroga a quanto previsto dal presente
Regolamento, nessun contributo minimo sarà richiesto, fermo restando il
versamento del contributo integrativo in proporzione al volume di affari
effettivamente prodotto“. Analogo esonero è previsto per coloro che si
cancellino da tutti gli Albi forensi entro 90 giorni dalla comunicazione di
iscrizione alla Cassa. A rafforzare poi l’efficacia della predetta
misura, diretta inequivocabilmente a provocare il definitivo abbandono degli
operatori marginali di settore, la norma in parola aggiunge che: “L’esonero
di cui al comma precedente sarà revocato per coloro che si reiscriveranno in un
Albo professionale forense prima che sia decorso un anno solare dalla
cancellazione”. L’attribuzione della “delega” di cui all’art. 21 (interpretato
in senso costituzionalmente orientato) si appalesa, invece, dominata da una
“ratio” opposta, perché preoccupata di creare, a fronte della
automaticità “iscrizione Albo = iscrizione a Cassa Forense” un
regime previdenziale adeguato ai minori redditi degli operatori marginali,
con l’evidente intento di proteggere il loro diritto di restare iscritti
all’Albo e continuare così ad esercitare tranquillamente la professione
forense, nonostante i loro minori guadagni. Ciò nel rispetto (ex art. 117
Cost.) della normativa comunitaria indicata nel precedente paragrafo, che vieta
di introdurre discriminazioni fondate sul reddito, ovvero nel rispetto del
combinato disposto art. 3, 2° comma, 4 e 33 Cost., in virtù del quale debbono
essere rimossi (e non accentuati) dal Legislatore quegli ostacoli di natura
economica che si frappongano alla effettiva partecipazione del cittadino alla
vita economica e sociale del Paese, mediante un attività o una funzione di sua
scelta. Se poi, per ragioni ermeneutiche, si dovesse essere costretti ad
interpretare l’art. 21 diversamente, riconoscendo a tale norma (e non al
Regolamento impugnato) la ratio diretta all’espulsione degli operatori
marginali, in base al discrimine delle loro minori capacità reddituali, è
evidente che, in tal caso, l’art. 21 comma 9 L. n° 247/2012 si porrebbe in
evidente contrasto con le norme della Costituzione sopra indicate. In tal caso
si chiede a codesto Ecc.mo TAR di ritenere non manifestamente infondata
l’eccezione che qui viene, in via subordinata, formulata in tal senso, e
rimettere, con propria Ordinanza motivata, gli atti alla Corte Costituzionale.
§.
8. Violazione di legge: Eccezione di incostituzionalità dell’art. 21 L. n°
247/2012 per conflitto con gli artt. 3, 2° comma, 4 u.c., 33 e. 117 Cost.
L’interpretazione dell’art. 21, comma
9, L. n° 247/2012 – preferibile e costituzionalmente orientata – è quella
secondo la quale tutti gli avvocati hanno il diritto di permanere nell’unico
sistema previdenziale, sia quelli che rientrano nei parametri stabiliti ex L.
n° 576/80, sia quelli che non vi rientrano, con pari dignità professionale e
pari diritto a restare nel “mercato”.
Se tale norma non può essere interpretata in questo senso, si deve
ritenere, viceversa, insita nella norma stessa la “ratio” di procedere a
“sfoltire” gli Albi, aggiungendo all’Esame di Stato – previsto dalla Cost. ex
art. 33 - un requisito ulteriore e diverso, legato ai maggiori oneri fissi (e
quindi potenzialmente sproporzionati al reddito) degli operatori minori,
diretto a favorirne la scomparsa dal mercato. Questa regola di “sfoltimento”
(e quindi l’art. 21 L. n° 247/2012) si appalesa, se così interpretata, in
manifesto contrasto con quanto prescrivono:
1. il combinato
disposto di cui agli art. 3, 2° comma, 4 u.c. e 33 Cost. che vietano oneri
economici irragionevoli che, impedendo di fatto la partecipazione alla vita
sociale ed economica del paese, impediscano di svolgere una attività scelta per
concorrere al progresso materiale o spirituale della società per mezzo
dell’esercizio di una professione, legittimata dal superamento dell’Esame di
Stato, condizione eccezionalmente disposta rispetto alla regola secondo la
quale la scienza e l’arte sono libere.
2. l’art. 117 Cost.,
che pone il vincolo del rispetto della regola “pacta sunt servanda” con
riferimento alle norme dell’ordinamento comunitario ed agli obblighi
internazionali, e segnatamente con riferimento al principi di non
discriminazione e di libera concorrenza contenuti nelle norme pattizie di fonte
internazionale dianzi richiamate che qui devonsi ritenere nuovamente
trascritte;
O l’iscritto raggiunge i parametri
reddituali e viene trattato come tutti gli altri iscritti, penalizzato, però,
nel calcolo per la liquidazione della pensione, che, anziché essere reddituale,
sarà contributiva, oppure non li raggiunge e perde la contabilizzazione, ai
fini dell’anzianità contributiva, dell’anno agevolato ricevendo solo un danno
economico. Si
tratterebbe, dunque, di una norma dalla cui applicazione non è possibile
prescindere e che – se doverosamente interpretata in tale senso - “fa d’ogni
erba un fascio”, accomunando casi molto diversi fra loro favorendo in
maniera opinabile l’espulsione di chi non rientra nei parametri reddituali,
sempre e in ogni caso “fatali” e la cui determinazione resterebbe – oltretutto
– condizionata dalle determinazioni dell’Ente di settore (Cassa Forense). In
tal senso, suggerendo qui sommessamente tale questione come rilevante ai fini
del decidere circa i vizi del Regolamento impugnato e, inoltre, per le ragioni
descritte, non manifestamente infondata, si solleva qui formalmente eccezione
di costituzionalità sull’art. 21 L. n° 247/2012, se in cotal guisa
interpretato, chiedendo nei termini sopra descritti e ai sensi e per gli
effetti dell’art. 1 della Legge costituzionale 9 febbraio 1948, n° 1,
l’adozione dell’Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale per contrasto
con la normativa richiamata e la sospensione, nelle more, sia del provvedimento
impugnato che di questo procedimento in corso.
§. 9. Violazione di legge: VIOLAZIONE
DEL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA: art. 3 Costituzione, Violazione Trattati Ue,
Violazione Trattati Edu.
Prima di illustrare
brevemente le infra esposte ragioni, è d’obbligo fare una premessa:
anteriormente alla riforma forense l’obbligo dell’iscrizione alla Cassa Forense
era previsto esclusivamente a carico dei professionisti con redditi al di sopra
dei 10 mila euro. Risulta, pertanto, irragionevole, specie in un momento
storico attraversato da una gravissima crisi economica, la scelta del
Legislatore che ha aggravato la tenaglia contributiva a carico delle fasce
deboli dei legali italiani, in nome del principio di equilibrio di bilancio
della Cassa Forense. Principio anacronistico apertamente ispirato a un sistema
tutt’altro che meritocratico, perché relega la libera professione a pochi
eletti. Prima dell’entrata in vigore del Regolamento in esame, i contributi
dovuti dagli iscritti a regime ordinario per ogni anno di iscrizione alla Cassa
si distinguevano in contributo soggettivo (per il 2013 €.2.700,00), integrativo
(per il 2013 €.680,00) e di maternità (per il 2013 €.132,00), mentre nel
medesimo periodo le agevolazioni per i professionisti a basso reddito
prevedevano una contribuzione ridotta comprensiva di due soli contributi,
soggettivo e maternità, pari a circa € 1.800,00 per i primi cinque anni di
iscrizione. Con l’entrata in vigore del Regolamento per cui è causa le dette
agevolazioni sono state lievemente incrementate ma nessuna ipotesi di esenzione
o proporzionalità è stata introdotta come invece da più parti si auspicava.
Difatti, per i professionisti percettori di redditi professionali ai fini IRPEF
inferiori a € 10.300,00 il Regolamento attuale ha previsto la riduzione della
metà del solo contributo soggettivo e limitatamente all’arco temporale relativo
ai primi otto anni di iscrizione alla Cassa, introducendo altresì il contributo
integrativo prima escluso in aggiunta a quello già previsto di maternità. Coloro
i quali si avvarranno del periodo di contribuzione agevolata, avranno riconosciuto
un periodo di contribuzione di sei mesi in luogo dell’intera annualità sia ai
fini del riconoscimento del diritto a pensione sia ai fini del calcolo della
stessa, mentre prima la stessa contribuzione ridotta valeva per intero, seppur
legata al requisito del reddito minimo conseguito. Come può
evincersi, l’importo contributivo agevolato attuale si discosta lievemente dal
precedente regime (per circa 200/300 euro) e garantisce solo sei mesi di
contribuzione previdenziale anziché dodici. Dopo gli otto anni, gli
avvocati saranno costretti a versare il contributo ordinario (ad oggi circa €.3.700,00),
quasi a ben sperare in una ripresa dell’economia e un exploit dei
redditi che neppure il più ottimista degli economisti oggi intravede.
Costringere chi ha un reddito basso a farsi carico di un contributo fisso
seppur (edulcorato) al “minimo”, rappresenta un’evidente violazione del
principio di proporzionalità e progressività contributiva previsto dall’art.53
Cost., oltre che un chiaro tentativo di determinare già oggi ex lege una
classe di avvocati che beneficerà di un contributo da pensione sociale, ben al
di sotto della soglia di povertà! Vi è poi da aggiungere che, a oggi, il
legislatore continua a considerare disoccupato chiunque percepisca un reddito
inferiore a € 4.800,00 lordi annuali e non si comprende come si possa obbligare
un avvocato tecnicamente disoccupato (come parte ricorrente sub 1), sub 3), sub) 4), sub) 10 e sub)
15): All. 6)) al
pagamento di contribuzione previdenziale in misura maggiore al reddito dichiarato,
pena la cancellazione dall’Albo, anche se a seguito di procedimento
disciplinare (ma dove è la condotta colposa?). Detta cancellazione, peraltro,
confligge con i principi costituzionali italiani ed europei che prevedono la
libertà di iniziativa economica, la libera concorrenza senza alcuna
discriminazione e l’accesso alla professione previo superamento del solo
Esame di Stato, quale unico presupposto per ottenere l’abilitazione. Non è
pensabile scaricare le conseguenze del calo del fatturato della professione
sulle fasce più deboli utilizzando l’escamotage della contribuzione
previdenziale obbligatoria, pena la cancellazione dall’Albo. Sarebbe stato,
pertanto, più opportuno mantenere una soglia di esenzione per i redditi bassi
ed una imposizione contributiva fondata sul criterio della proporzionalità al
reddito prodotto, (l‘art. 21 comma 9 facoltizzava Cassa Forense in tal senso).
Il sistema previdenziale ideato non è più al passo con i tempi attuali e
costituisce un fattore di discriminazione dell’accesso alla professione oramai
fondata sul reddito: ci si chiede che utilità possa avere un sistema
previdenziale che per la sua esosità costringe oggi il contribuente
professionista a cancellarsi? Occorre pensare al presente per guardare al
futuro e non può esserci futuro senza l’oggi. La Cassa Forense non può
permettersi di essere retta ancora oggi con un sistema retributivo oramai non
condiviso da nessun altro sistema previdenziale (tutti passati al più equo
contributivo). Quello dei contributi rappresenta pertanto un ostacolo economico
allo svolgimento della professione, un artifizio usato al solo scopo di
eliminare il soprannumero dei legali italiani, nella piena convinzione che
tutti i costi, previsti dalla recente Legge di riforma, possano essere un lusso
riservato a pochi. La possibilità di arrestare l’incremento del numero degli
avvocati deve passare attraverso la previsione obbligatoria di un numero chiuso
nelle facoltà di giurisprudenza, un eventuale numero massimo di abilitazioni
concesse (magari previo vero e proprio concorso) ma non di certo modificando le
regola del gioco in corsa e mettendo alla porta chi ha superato l’abilitazione
dell’Esame di Stato e fatto affidamento su un sistema che a suo tempo concedeva
la speranza di credere nel sogno della professione ed ha conseguito una laurea
e un titolo legittimamente, con i propri sacrifici. Poiché, si ripete, parte
ricorrente sub 1),
sub 3), sub 4), sub 10) e sub 15) sono giuridicamente disoccupati, avendo un reddito annuo
inferiore a 4800 euro ed essendo iscritti alle Liste di Disoccupazione non è
concepibile logicamente e non è di giustizia che essi siano chiamati a
concorrere al sodalizio previdenziale, in sproporzione alla loro capacità
contributiva (pari a euro zero ovvero molto esigua, come agevolmente si evince
dalla documentazione allegata). Si aggiunga, inoltre, che le parti esponenti sub 1), sub 13) sub 14) e sub 15) sono fiscalmente a carico dei
genitori (All. 7), e che i genitori di costoro, anche volendo contribuire al
pagamento dei contributi previdenziali per i figli, ultratrentenni e
ultraquarantenni, sono a ciò impossibilitati a causa della loro esigua pensione
o stipendio, oltre che dall’impossibilità che essi genitori deducano oneri
previdenziali per i figli, come, viceversa, gli avvocati capienti fiscalmente
possono fare per sé stessi (doppia discriminazione: fattuale e fiscale). E’
bene specificare che l’iscrizione all’Albo come il superamento dell’Esame di
Stato abilitano all’esercizio della professione, ma non assicurano di per sé
alcun apporto economico. Il titolo di avvocato è soltanto, per l’appunto, un titolo non
costituendo, purtroppo invero, di per sé effetti reddituali. Si
rammenta che con l'entrata in vigore del D.Lgs. n° 297/02 sono cambiate le
regole in materia di stato di disoccupazione. Lo stato di disoccupazione
(art.1, comma 2, lettera c), viene riconosciuto solo a coloro che dichiarino
l'immediata disponibilità al lavoro. Inoltre, lo stato di disoccupazione può
essere conservato qualora lo svolgimento dell'attività lavorativa sia tale da
assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso
da imposizione. Tale soglia non si applica ai soggetti di cui all'art.8, commi
2 e 3, del D.lgs. 1/12/97 n° 468 (lavoratori utilizzati nelle attività di
lavori socialmente utili). I limiti di reddito annuale lordo per la
conservazione dello stato di disoccupazione sono i seguenti: euro 8.000 per i
redditi da lavoro dipendente o fiscalmente assimilati (per es.: derivanti da
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e lavoro a progetto) euro
4.800 per i redditi da impresa o derivanti dall’esercizio di professioni (ivi
inclusi i lavoratori così detti “occasionali”). Nel caso in cui una persona
svolga attività lavorative di entrambi le tipologie, il cumulo dei redditi che
ne derivano non dovrà superare comunque l’importo del massimale più elevato
(Euro 8.000). La valutazione delle soglie di reddito avviene rispetto all’anno
in corso (1° gennaio – 31 dicembre dell’anno). Per reddito si intende il reddito
lordo anche presunto riferito all’anno in corso esclusivamente derivante da
attività lavorativa, di qualunque tipologia (non si considerano pertanto
redditi di qualunque altra natura). Nel caso di conservazione l'anzianità di
disoccupazione maturata continua a decorrere. Ora non v’è chi non veda come le
predette parti ricorrenti rientrino nello stato di disoccupazione legalmente
cogente, in quanto iscritti ad una professione ordinistica con reddito
inferiore alla soglia di Legge. Di talché, obbligare tali parti esponenti
- ossia le parti esponenti sub 1), sub 3), sub 4), sub 10) e sub 15) - a versare contribuzione previdenziale (che non possono in alcun modo
dedurre dal reddito: incapienza fiscale, ergo vantaggio per gli operatori del
settore congrui ovvero superiori con i parametri previdenziali, id est almeno
10.300 euro) che, in ogni caso, non potrebbero versare per il noto
principio giuridico, proprio di ogni ordinamento civile, “nemo tenetur ad
impossibilia”, esponendoli alle censure disciplinari che Cassa Forense sta
massivamente attivando (vedasi All. 4), è esporre tali ricorrenti
- ma ciò dicasi anche per gli altri ricorrenti con redditi nulli
o molto esigui di cui alla documentazione depositata sub) n° 7 - a
una palese disparità di trattamento coi colleghi disoccupati sic et
simpliciter, nonché coi colleghi di altre professioni ordinistiche il cui
profilo previdenziale, in ogni caso, MAI condiziona l’esercizio
dell’abilitazione conseguita. Il Regolamento impugnato prevede per gli
Avvocati che percepiscono un reddito da 0 a 10.300 una contribuzione minima
pari a quanto stabilito dagli artt. 7, 8 e 9 del predetto Regolamento. Tale
contribuzione ridotta è usufruibile per solo 8 anni, è sganciata dal reddito
percepito e vale ai fini pensionistici soltanto 6 mesi. E’ da specificare che
l’art. 21 comma 9 della Legge n° 47/2012 consentiva e consente a Cassa Forense
di istituire il regime contributivo per questi neoiscritti d'ufficio “La
Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con proprio regolamento,
determina, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente Legge,
i minimi contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il
raggiungimento di parametri reddituali, eventuali condizioni temporanee di
esenzione o di diminuzione dei contributi per soggetti in particolari
condizioni e l'eventuale applicazione del regime contributivo".
Tuttavia, la scelta di una contribuzione c.d. minima di importo così elevato
palesa la sua reale motivazione in combinato disposto all'art. 12 del Regolamento
per cui è discorso: "A coloro che, nelle more dell’approvazione
Ministeriale del presente Regolamento e, comunque, non oltre 90 giorni dalla
sua entrata in vigore, procedessero alla cancellazione da tutti gli Albi
professionali prima della comunicazione della formale iscrizione alla Cassa, in
deroga a quanto previsto dal presente Regolamento, nessun contributo minimo
sarà richiesto, fermo restando il versamento del contributo integrativo in
proporzione al volume di affari effettivamente prodotto. Analogo esonero è
previsto per coloro che si cancellino da tutti gli Albi forensi entro 90 giorni
dalla comunicazione di iscrizione alla Cassa ai sensi del presente
Regolamento.L’esonero di cui al comma precedente sarà revocato per coloro che
si reiscriveranno in un Albo professionale forense prima che sia decorso un
anno solare dalla cancellazione. Nei confronti di coloro che, alla data del 2
febbraio 2013, erano già iscritti in un Albo forense ma non alla Cassa, le
agevolazioni contributive di cui all’art. 7, commi 2 e 3, si applicano senza
tenere conto dei limiti di età ivi previsti". Tale
autodimissione in massa dagli Albi degli operatori marginali, in modo evidente
incentivata, è gravemente lesiva della concorrenza e del libero esercizio della
professione. Viene, infatti, positivizzato in via disciplinare
in combinato disposto con il nuovo codice deontologico forense, in via di
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, un obbligo di successo professionale,
pena la sospensione dall'Albo fino a cinque anni nei casi meno gravi e con la
cancellazione e la radiazione in caso di reiterazione del mancato adempimento
della obbligazione previdenziale a Cassa Forense, che elude il comma 1
dell'art. 21 della Legge 247/2012: "La permanenza dell'iscrizione
all'Albo è subordinata all'esercizio della professione in modo effettivo,
continuativo, abituale e prevalente, salve le eccezioni previste anche in
riferimento ai primi anni di esercizio professionale. Le modalità di
accertamento dell'esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente
della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione
sono disciplinate con regolamento adottato ai sensi dell'articolo 1 e con le
modalità nello stesso stabilite, con esclusione di ogni riferimento al
reddito professionale". E' chiaro che tale previsione
deontologica, che interferisce pesantemente con l'esercizio della professione
in quanto incide sulla permanenza nell'Albo e sulla possibilità (potenziale) di
esercitare, non ha paragoni con le altre professioni ordinistiche le cui
vicende previdenziali MAI possono compromettere l'esercizio della professione e
MAI danno luogo a procedimento disciplinare. Tale deteriore conseguenza
della novella legislativa e del Regolamento ex art. 21 comma 9 Legge n°
247/2012 è gravemente lesiva della concorrenza e della scelta del
professionista da parte del cittadino perché precostituisce e legittima una
rendita di posizione a favore degli avvocati che sono sul mercato dei servizi
legali da molto tempo e di chi eredita per motivi di parentela e/o di amicizia
studi legali avviati, tale da configurare un vero e proprio abuso
di posizione dominante a favore degli avvocati che sono già sul mercato. Sospensione
e cancellazione, per di più, che violano in maniera flagrante il diritto
costituzionalmente tutelato alla scelta del lavoro in uno con l'art. 4 della
Carta costituzionale. Regolamento in combinato disposto con il nuovo codice
deontologico forense che impone, altresì, assurdamente, un obbligo di successo
professionale che non ha, e non può avere, alcuna giustificazione plausibile -
men che meno la tutela di un pubblico interesse - in quanto la sanzione della
censura/sospensione/cancellazione/radiazione non è imputabile a indegnità ma
solo a un insuccesso economico incolpevole che colpisce in specie i
neoavvocati, le donne avvocato, gli avvocati socialmente fragili e che nessuna
corporazione esponenziale professionale ordinistica si trova a dover avere, con
le censure evidenti di costituzionalità conseguenti in ragione di identiche
situazioni giuridiche diversamente e immotivatamente regolate, in spregio del
principio di eguaglianza. Non può non farsi rilevare, tuttavia, che lo
scopo di assicurare a tutti una tutela previdenziale è fittizio: infatti chi
guadagna poco, anche se fa concorrenza, non è in grado di costruirsi una
pensione. Ed è proprio questo fatto che viene preso a pretesto per
"favorire" le dimissioni degli avvocati più deboli, i quali
"inquinerebbero" la professione forense con la loro attività poco
professionale perché sporadica e improvvisata. L’interpretazione
costituzionalmente orientata (dottrina del Prof. Giuseppe Tesauro) dell’art. 21
esige che l’automatica iscrizione di tutti gli operatori del settore a Cassa
Forense (avvocati iscritti all’Albo) non comporti alcuna influenza sulla scelta
degli operatori marginali (avvocati con reddito insufficiente o nullo) di
abbandonare o restare nel mercato. Solo in “cotal guisa” la norma risulta
conforme a quanto esigono, per l’art. 117 Cost. (pacta sunt servanda), l’art. 14
CEDU ed il principio TUE art. 3 lettera g), secondo cui gli Stati membri
debbono assicurare un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia
falsata nel mercato interno (ovvero vincolo a mantenere la parità di
concorrenza tra gli imprenditori e divieto degli aiuti di stato). Per il TUE avvocati uguali imprenditori in
senso comunitario. Stante la disciplina INPS, si tratterebbe di stabilire che
lo stesso contributo da pagare all’INPS si paghi invece a Cassa Forense (senza
obbligo di alcun minimo fisso, a fronte della mancanza di garanzia di un minimo
pensionistico). Praticamente il cambiamento, pur avvantaggiando Cassa Forense,
sarebbe “neutro” e quindi legittimo, ancorché diretto a premiare il “legittimo
interesse” dell’Ente in questione. La finalità “sussidiaria” di “spingere”
l’operatore marginale a dare le dimissioni, uscendo definitivamente dagli Albi
e dal “mercato” in quanto costretto, con reddito insufficiente o nullo, ad
indebitarsi per pagare una somma fissa a Cassa Forense, non è, invece, conforme
ad una “interpretazione orientata” dell’art. 21, ma rende invece il sistema non
conforme alle due norme sopramenzionate, che, dopo la modifica dell’art. 6 TUE
avvenuta con il Trattato di Lisbona del 2009, sono da considerarsi sullo stesso
piano e parte integrante dell’”ordinamento comunitario”, di cui fa speciale
menzione lo stesso art. 117 Cost. Or non è dubbio che tale Regolamento miri
proprio a questo e lo dimostra proprio la norma secondo la quale chi subito “si
leva dai piedi” (secondo una frase oggi di moda) non paga nulla. Questo
interesse va censurato non solo per il vizio di illegittimità, ma per
perseguire uno scopo diverso da quello che vuole l’art. 21 nella versione
interpretativa “giusta” (assicurare un copertura previdenziale a tutti gli
operatori del settore sotto l’ala previdenziale di unico Ente, secondo il noto
brocardo “non avrai altro Ente al di fuori di me”). Tuttavia, non v’è chi non
veda che attualmente è proprio l’art. 21 ed il relativo Regolamento ex Legge di
Riforma ad essere interpretato diversamente, nel senso cioè di prevedere un
“handicap” ai danni degli operatori marginali che avvantaggia (ingiustamente)
quelli più forti, in quanto come conseguenza crea una massa sterminata (56.000
persone) di debitori legali di Cassa Forense e spinge alle dimissioni dall’Albo
pena sanzioni disciplinari dirette al medesimo fine da parte dell’ordinamento
forense con le modalità del processo disciplinare, di talché esso diviene cosa
molto diversa dalla formazione sociale in cui si esplica la personalità
dell’Avvocato. Si chiede, pertanto, di sollevare questione di legittimità
costituzionale della normativa censurata per i motivi anzidetti. Altresì, nelle
more è stata pubblicata la sentenza n° 17892/2014 (all. 8) della Corte di
Cassazione che si allega in versione integrale segnalando, per la questione qui
dibattuta, quanto affermato alle pagg. 11,12 e 13 in ordine al divieto di
delibere peggiorative nei confronti di una sola coorte di iscritti, vuoi
pensionati o giovani. Una conferma, ictu oculi, della illegittimità del
Regolamento impugnato è ravvisabile, per di più, anche nello art. 9, comma 7,
che esclude dai benefici della contribuzione ridotta gli istituti della
iscrizione retroattiva e dei benefici agli ultraquarantenni, come per le parti
ricorrenti è, così di fatto privando, per questioni di reddito, una vastissima
platea di iscritti dalla possibilità di far uso di tali strumenti per
rimpolpare un già malconcio “zainetto” previdenziale, dato che il regolamento
prevede il versamento della intera contribuzione o in unica soluzione o, al
massimo, con rateizzazione triennale. L’esclusione è finalizzata a non turbare
gli equilibri economico-finanziari della Fondazione previdenziale di
categoria, ma ciò non può avvenire in
danno di una sola coorte di iscritti che sarebbero privati di un loro
“sacrosanto” diritto, affermato sulla carta ma reso impossibile nel suo
esercizio per motivazioni soltanto censuarie.
§. 10. Eccesso di potere: Violazione di motivazione:
non sostenibilità finanziaria di Cassa Forense e, di conseguenza, illegittimità
dell’iscrizione d’ufficio alla stessa. Violazione del principio di non
discriminazione in base alle differenze reddituali, discriminazione vietata dal
Diritto Europeo.
A seguito della privatizzazione, che
risale agli anni 1994 – 1995, Cassa Forense è una Fondazione di diritto
privato, la quale ha rinunciato alla garanzia dello Stato (Decreto Legislativo
n ° 509 del 30 giugno 1994). Ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 24,
comma 24, della Legge n° 214/2011 Cassa Forense deve dimostrare di avere la
stabilità economico finanziaria per almeno 50 anni. Vedasi pag n° 3 della
Relazione Bilancio Tecnico straordinario della gestione previdenziale alla data
del 31/12/2011 (documento allegato sub All. 9):
La Cassa Nazionale di Previdenza ed
Assistenza Forense è finanziata dal sistema a ripartizione e liquida,
attualmente, la pensione con il sistema retributivo corretto. Cassa Forense ha
dato prova della stabilità cinquantennale con il Bilancio Tecnico che si deposita
(All. 9) dal quale risulta che sono stati proiettati nel tempo valori
completamente diversi da quelli reali, ancorché in ossequio alla conferenza dei
servizi interministeriale. E’ lo stesso attuario, alla pag. 36 del suo
elaborato, che ricorda come il Bilancio Tecnico, riferendosi a periodi di tempo
così lunghi, produce risultati da interpretarsi con estrema cautela,
Rimanere in un sistema reddituale
significa, infatti, continuare a fare delle promesse pensionistiche a priori,
basate cioè sui tassi di rendimento impliciti nel sistema stesso, ovvero
contenuti nelle sue regole di calcolo, tassi che risultano sostenibili solo se
gli effettivi andamenti dei tassi determinanti per la sostenibilità, che sono
prima di tutto quello di variazione di una adeguata parte della massa
reddituale e quello di rendimento del patrimonio, risultano non inferiori a
quelli impliciti. Si rileva che sebbene la valutazione di sostenibilità per
previsione normativa debba essere effettuata mediante le proiezioni attuariali,
tuttavia, la medesima previsione normativa ha dimenticato di imporre la
verifica a posteriori delle ipotesi utilizzate. Pertanto, nel successivo
bilancio tecnico si possono riutilizzare le ipotesi di rendimento esplicito e
implicito del sistema utilizzate nel precedente bilancio tecnico anche se, alla
prova dei fatti, si sono rivelate assolutamente infondate in quanto
eccessivamente ottimistiche. In tale modo nella realtà virtuale futura del
sistema pensionistico rappresentata dalla previsione attuariale del nuovo
bilancio tecnico si determina una sostenibilità basata su tassi di rendimento
che la realtà ha smentito. Il problema è che in tale caso, cioè se i tassi
determinanti per la sostenibilità risultano nella realtà inferiori a quelli
impliciti - e ciò accade quasi sempre, come tutta l'esperienza dimostra -
perché i tassi impliciti nelle regole di calcolo della pensione sono troppo
elevati - in una logica di tipo reddituale la promessa pensionistica è
formulata già in termini di prestazione e, quindi, basandosi sul principio
giuridico del diritto acquisito, deve essere comunque rispettata. Questo fatto
determina un ulteriore disavanzo del sistema, disavanzo che risulta
"scaricato" sulle generazioni future, con evidente dispregio del
principio di equità intergenerazionale e con un'ulteriore compromissione della
sostenibilità in quanto basata su di un indebitamento che non può che crescere
a dismisura come l'esperienza del debito pubblico italiano dimostra. Si ritiene
che la sostenibilità di una Cassa, quand'anche adotti il sistema di calcolo
contributivo, debba essere di tipo logico (Prof. Massimo Angrisani in
www.logicaprevidenziale.it). La logica e la prassi dei sistemi contributivi
consentono di riconoscere a posteriori i rendimenti sui contributi versati: tali
rendimenti debbono essere commisurati alla effettiva crescita di una adeguata
parte della massa reddituale e all'effettivo rendimento del patrimonio. E’
necessario, infatti, sapere che il tasso di crescita di una adeguata parte
della massa reddituale è un tasso di rendimento potenzialmente riconoscibile al
debito del sistema. E’ necessario, pertanto, valutare il debito del sistema
pensionistico, variabile fondamentale per calcolare il rendimento che il
sistema può riconoscere. Non è sufficiente valutare la spesa futura per anni di
gestione mediante le proiezioni del bilancio tecnico. Occorre, quindi, che i
rendimenti che il sistema riconosce al debito pensionistico siano correlati a
quelli effettivamente prodotti annualmente dallo stesso. In questo modo il
debito del sistema cresce in modo correlato ai rendimenti in grado di
sostenerlo e, quindi, tale sostenibilità risulta logicamente conseguibile. Oggi
si sta cercando di accreditare l'utilizzo dell'approccio stocastico per le
proiezioni attuariali come strumento idoneo a rafforzarne l'efficienza.
Ricordiamo che l'utilizzo dei modelli stocastici è stato pesantemente
ridimensionato nel settore finanziario nel quale tali modelli hanno dimostrato
la loro rischiosità. Non bisogna dimenticare che l'enorme crisi che ha colpito
in questi ultimi anni non solo i mercati finanziari ma anche l'economia reale
ha tratto origine anche dalla creazione di innumerevoli titoli derivati e
strutturati «garantiti dall'approccio modellistico stocastico». Da ultimo è
evidente che l'asset liability management è tanto più efficiente quanto
più i tassi passivi riconosciuti dal sistema pensionistico alle sue liabilities,
cioè alle pensioni, sono agganciati ai tassi attivi per il sistema
effettivamente prodotti, cioè a quelli connessi alla effettiva crescita di una
adeguata parte della massa reddituale e a quelli connessi agli effettivi
rendimenti finanziari prodotti dal patrimonio. Ora è interessante notare
che con le linee guida del Bilancio Tecnico della Cassa Forense dimostra di avere
il saldo previdenziale attivo per 50 anni a condizione che: a) la categoria
aumenti di numero; b) il reddito degli avvocati aumenti; c) il volume di affari
aumenti; d) il rendimento del patrimonio aumenti. Tutti dati smentiti
dalla stessa Cassa Forense che nella sua Rivista “La Previdenza Forense” n°
2/2013 e nel Bilancio Consuntivo 2013 (All. 10 e 11) vede i redditi dichiarati
alla Cassa di categoria precipitati a quelli degli anni 90. Si è di fronte a un
derivato previdenziale costruito su ipotesi che già oggi si sa che
difficilmente si verificheranno come già avvenuto negli anni appena
trascorsi, fatta eccezione per la numerosità della categoria per la quale,
però, si invoca il numero chiuso (sic!) Orbene, nelle more, sono
intervenuti degli autentici sconvolgimenti demografici ed economici della
gestione perché l’art. 21 della Legge n° 247/2012 ha imposto a tutti gli
iscritti agli Albi la contestuale iscrizione in Cassa Forense (si tratta di
iscrivere circa 56.000 avvocati iscritti ai COA territoriali ma non in Cassa
Forense, titolari di redditi inferiori ad € 10.300,00 annui) e come dichiarato
dalla stessa Fondazione l’andamento economico dell’Avvocatura è regredito a
livello degli anni ’90. Nel frattempo, il Comitato dei Delegati di Cassa
Forense ha approvato il Regolamento di attuazione dell’art. 21, commi 8 e 9,
della legge n° 247/2012. Con tale Regolamento Cassa Forense ha arbitrariamente
modificato due principi fondamentali del proprio assetto normativo e,
precisamente, il principio dell’iscrizione a domanda e l’infrazionabilità
dell’anno introducendo, altresì, tutta una serie di benefici ed esenzioni non
sorrette da proiezioni attuariali. I presupposti di fatto indicati sono
assolutamente incontestabili perché risultano dagli atti ufficiali di Cassa
Forense. Per esemplificare, parte ricorrente andrà in pensione al compimento
del settantesimo anno di età e oggi non ha la garanzia in ordine
all’adempimento dell’obbligazione previdenziale a carico di Cassa Forense.
L’art. 24, comma 24, della Legge n° 214/2011 così dispone: “24. In
considerazione dell'esigenza di assicurare l'equilibrio finanziario delle
rispettive gestioni in conformità alle disposizioni di cui al decreto
legislativo 30 giugno 1994, n° 509, e al decreto legislativo 10 febbraio 1996,
n° 103, gli enti e le forme gestorie di cui ai predetti decreti adottano,
nell'esercizio della loro autonomia gestionale, entro e non oltre il 31 marzo
2012, misure volte ad assicurare l'equilibrio tra entrate contributive e spesa
per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco
temporale di cinquanta anni. Le delibere in materia sono sottoposte
all'approvazione dei Ministeri vigilanti secondo le disposizioni di cui ai
predetti decreti, che si esprime in modo definitivo entro trenta giorni dalla
ricezione di tali delibere. Decorso il termine del 31 marzo 2012 senza
l'adozione dei previsti provvedimenti, ovvero nel caso di parere negativo dei
Ministeri vigilanti, si applicano, con decorrenza dal 1° gennaio 2012: a) le disposizioni di cui al comma 2 del presente
articolo sull'applicazione del pro-rata agli iscritti alle relative gestioni;
b) un contributo di solidarietà, per gli anni 2012 e 2013, a carico dei
pensionati nella misura dell'1 per cento.” Orbene, se si fa affidamento sui
dati reali e non quelli attesi dalla conferenza interministeriale la
sostenibilità per 50 anni NON esiste più. È evidente che nel rapporto
previdenziale, intanto vi può essere l’obbligo all’iscrizione e alla
contestuale contribuzione, in quanto vi sia la garanzia da parte dell’Ente alla
sua solvibilità che richiede, quindi, la stabilità economico – finanziaria di
lungo periodo. L’esatta situazione di Cassa Forense in termini di funding
ratio risulta obiettivamente dai report ALM – Asset Liability Management
- che è in possesso di Cassa Forense e che misura la gestione dell’attivo in
funzione del passivo e dei quali si chiede l’esibizione. Ove dall’insieme di
tali atti, BILANCIO ATTUARIALE E REPORT ALM, non risultasse comprovata
la stabilità economico finanziaria di Cassa Forense per il periodo di 50 anni,
così come previsto dalle vigenti disposizioni proiettando i dati reali
desumibili dalla media degli ultimi dieci anni come risultano dai bilanci di
esercizio, le parti ricorrenti, iscritti d’ufficio, hanno un interesse
legittimo assai rilevante a far dichiarare illegittima la loro iscrizione
officiosa. Ove non sussista la stabilità economico finanziaria di Cassa Forense
ai sensi dell’art. 24, comma 24 della Legge n° 214/2011, la medesima Fondazione
dovrà optare per il sistema di calcolo contributivo nel rispetto del pro rata
temporis così come disposto dalla norma appena citata; di talché parti
ricorrenti, rimesso l’art. 21 della Legge n° 247/2012 alla Corte Costituzionale
per illegittimità dello stesso ai sensi degli artt. 3 e 38 Costituzione anche
in relazione a quanto statuito dalla sentenza della Suprema Corte con Sentenza
n° 17892/2014 - ove non sia interpretato nel senso costituzionalmente corretto
e cioè di subordinare la iscrizione di ufficio alla stabilità economico
finanziaria reale di Cassa Forense per i prossimi 50 anni - hanno il diritto di
non essere iscritti alla Cassa di Previdenza e Assistenza Forense. Vi è,
infine, da considerare che la stessa Nota del Ministero Vigilante (All. 5) da
atto della indeterminatezza delle ipotesi attuariali inerenti alla sostenibilità
finanziaria dell’Ente, in considerazione del turn-over indotto dalla
Legge:
Si ribadisce, conclusivamente, che l’ultimo Bilancio Tecnico
che garantisce la stabilità cinquantennale di cui alla Legge n° 214/2012 è
stato ottenuto proiettando non i dati reali di numerosità, reddittività, volume
d’affari e rendimento del patrimonio dell’Avvocatura, ma i dati offerti dalla
Conferenza interministeriale dei servizi che prevedono redditi e volumi di
affari in costante aumento. Quando, invero la reddittività e il volume d’affari
degli avvocati italiani è regredito a quello della fine degli anni ’90 (vedasi
All. 10). Conclusivamente, la pensione è un’aspettativa a formazione
progressiva e non un diritto in senso stretto, in quanto si forma col passare
degli anni. Il punto è garantire la certezza del diritto (o l'aspettativa),
ovvero garantire nei confronti di chi oggi entra in Cassa, una prestazione
verosimilmente certa. Se la necessità di garantire i diritti quesiti oppure il pro
rata, come afferma la Cassazione anche nell'ultima sentenza relativa alla
Cassa dei Ragionieri, sta nell'esigenza primaria di garantire la certezza del
diritto nel tempo, la stessa certezza è oggi requisito indispensabile a
presidio della certezza dell'aspettativa del nuovo professionista che accede al
sistema previdenziale. Nessuno, ad esempio, investe in un sistema dove le
regole del gioco sono falsate sin dall'inizio e ciò, a maggior ragione quando
sono in gioco diritti previdenziali, nei confronti dei quali occorre una
maggiore trasparenza. Per le ragioni di bilancio enucleate supra, non vi
è alcuna certezza che le prestazioni ipotizzate siano in futuro concesse e ciò
perché il sistema non regge per tabulas dal punto di vista
dell'equilibrio di bilancio. Un sistema che non si regge su solidi base
matematiche viola anche indirettamente l'art.3 Cost., laddove consente ad
alcuni di ricevere certezze, ovvero i diritti quesiti intoccabili (i già
pensionati) e nega ad altri un futuro dignitoso. Inoltre, secondo la Corte
Costituzionale il trattamento pensionistico assolve una funzione sociale e
alimentare. Da questo presupposto, il Regolamento appare irrazionale poiché non
garantisce alcuna pensione dignitosa frustando le aspettative del
professionista in violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost., ed è allo stesso
tempo irrazionale poiché formalmente sembra assicurare un trattamento
pensionistico che nei fatti non sussisterà vista l'inadeguatezza del bilancio
secondo parametri attuariali reali. Ma è, altresì, irragionevole anche nella
misura in cui, secondo un'ottica di bilanciamento dei principi costituzionali
tra due opposte valutazioni, ovvero quella di garantire una esenzione a chi
vive al di sotto della soglia di povertà e quella di garantire agli stessi un
trattamento previdenziale che operi per il futuro imponendo già oggi una
prestazione che nei fatti non è esigibile, il Regolamento opta
irragionevolmente per la seconda scelta, ledendo nell'immediatezza il diritto
fondamentale a vivere dignitosamente e di riflesso consentendo l'esclusione
dalla professione. E, inoltre, viola gli artt. 3 e 53 Cost. nella misura in cui
la prestazione previdenziale è irragionevole perché grava in misura maggiore
e ingiustificata su chi non può disporre
di un reddito adeguato rispetto a chi lo possiede, in special modo quando
questo è prodotto in virtù della posizione di rendita acquisita sul mercato
(per amicizia ovvero per parentela). Occorre evidenziare, pertanto, che il
sistema professionale forense è un sistema concorrenziale distorto, nel quale
alcuni professionisti hanno un "valore di avviamento" già in partenza
rispetto ad altri che accedono senza aiuti "economici familistici".
Inoltre, la solidarietà e le agevolazioni concesse dal sistema di cui al
Regolamento è solo apparente e, quindi, irragionevole, in quanto non sono
legate al reddito ma alla durata della carriera professionale: all'ottavo anno
i benefici vengono meno non perché si supera (magari!) effettivamente il
reddito sotto i parametri, ma perché si superano gli 8 anni di carriera
professionale. Si presuppone, quindi, illogicamente, considerato l'andamento in
picchiata dei redditi dell'Avvocatura, un successo professionale automatico. E'
da notare come l'art. 36 e l’art. 38 Cost. stabiliscano principi giuridici
secondo i quali un trattamento pensionistico è costituzionalmente adeguato
allorquando questo garantisca i mezzi per fronteggiare dignitosamente la
propria vita. Invero, sia la frazionabilità dell'anno, sia l'importo
"modesto", sia il mancato equilibrio di bilancio non garantiranno nel
tempo alcuna pensione, ragion per cui già oggi la finalità perseguita dalla
norma è fittizia. Inoltre, nell’Ordinamento Europeo vige il principio,
ribadito da ultimo dalla Sentenza del 3 settembre 2014 della Corte di Giustizia
dell'Unione Europea (doc. n° 12), che il diritto europeo osta ad una normativa
nazionale che preveda, ai fini del calcolo di una prestazione previdenziale,
l’applicazione, quale fattore attuariale, della differenza di speranza di vita
tra gli uomini e le donne, di talché, mutatis mutandis, appare conseguente come
il diritto comunitario osta, a maggior ragione, anche al Regolamento per cui è
giudizio, quale normativa nazionale, stante la discriminazione operata a
seconda delle differenze reddituali percepite dai professionisti forensi.
*******
Tanto premesso,
C O N C L U D O N O
per l’accoglimento del ricorso
chiedendo:
A) che l’Ecc.mo TAR del Lazio, contrariis reiectis,
voglia, previa sospensione dei provvedimenti impugnati, con Sentenza dichiarare
nullo perché tardivo il Regolamento
attuativo ex art. 21, commi 8 e 9, della Legge n° 247/2012, approvato con
ministeriale n° 36/0011604/MA004.A007/AVV-L-110 del 7 agosto 2014 (recante
approvazione, di concerto con il Ministero dell'Economia e delle Finanze ed il
Ministero della Giustizia, della
delibera n° 20 adottata
dal Comitato dei
delegati della Cassa
nazionale di Previdenza ed
Assistenza Forense, in data 20 giugno
2014, con la quale è stato adottato il nuovo testo del
"Regolamento ex art. 21, commi 8 e 9 della Legge n°
247/2012", con la
seguente modifica: all'art. 7,
comma 6 ed all'art. 9, comma 5, e' aggiunto
il seguente periodo: "La
relativa delibera e' sottoposta
all'approvazione dei Ministeri
vigilanti"). Nota ministeriale pubblicata in G.U. del 20 agosto 2014 a
cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Serie Generale n° 192
del 20 agosto 2014), ovvero annullare il medesimo per violazione di legge
nonché eccesso di potere per tutti motivi in narrativa esposti dal paragrafo A)
al paragrafo B), nonché dal paragrafo 1 al paragrafo 10;
B) anche d’ufficio, ritenuta la rilevanza
della questione e la sua non manifesta infondatezza, voglia sollevare la
questione di illegittimità costituzionale dell’art. 21 L. n° 247/2012 come in
narrativa esposto nei paragrafi da 1 a 10 e, in ogni caso, dell’art. 21
comma 9, limitatamente alle parole: “i minimi contributivi dovuti nel caso
di soggetti iscritti senza il raggiungimento di parametri reddituali”, nonché dell’art. 21 L. n° 247/2012 comma 10
circa le parole: “Non è ammessa l'iscrizione ad alcuna altra forma di
previdenza se non su base volontaria e non alternativa alla Cassa nazionale di
previdenza e assistenza forense” per contrasto con gli artt. 3, II comma.,
4 u. comma., 33 e 117 Cost.. Quest’ultimo con riferimento all’art. 14 CEDU e
dell’art. 1 del Protocollo n° 12 della Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali adottato in Roma il 04.11.2000, e, per l’effetto, così
sospendere, ex lege, l'esecutorietà del provvedimento impugnato, nonché
di questo procedimento per pregiudizialità costituzionale, con immediata
trasmissione - a cura della Cancelleria - del fascicolo d'ufficio e dei
fascicoli delle parti alla Corte Costituzionale ed altresì ordinare la
notificazione dell’Ordinanza di rimessione – sempre a cura della Cancelleria –
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alle parti in causa, nonché ai
Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica;
C) Istanza di rinvio pregiudiziale. Chiedono, altresì, che il TAR
voglia rivolgersi, ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul Funzionamento
dell’Unione europea (TFUE), alla Corte di Giustizia Europea per ottenere, sulla
base delle osservazioni contenute nell’apposito paragrafo sub §. 6.
(Conflitto del Regolamento impugnato con il principio comunitario (TUE) sulla
libera concorrenza) una pronuncia della corretta interpretazione del
diritto dell’Unione, con riferimento agli artt. 101 e 102 TFEU, mediante la
procedura di rinvio pregiudiziale.
IN VIA ISTRUTTORIA
Anche per quanto concerne i provvedimenti necessari per
assicurare la completezza dell'istruttoria, le parti ricorrenti fanno qui
puntuale istanza, chiedendo sin da ora, allo scopo - se del caso - di
consentire apposita CTU, che a Cassa Forense sia ordinata, in virtù del
combinato disposto degli artt. 64 e 67 del C.P.A. l’esibizione della seguente
documentazione “tecnica” perché influente, pertinente e rilevante ai fini del
decidere: REPORT ALM. Salva ispezione diretta all’acquisizione dei documenti
qui sopra già elencati, in caso di rifiuto all’esibizione richiesta, presso gli
uffici di quest’ultima in Roma, via Ennio Quirino Visconti n° 8. Si chiede,
altresì, apposita, se del caso, CTU nel senso di cui sopra, in particolare
anche sui documenti esibiti da Cassa Forense. Ai sensi dell’art. 136, co. 2,
C.p.a., il sottoscritto difensore attesta la conformità tra il Ricorso
depositato ed i relativi documenti cartacei depositati con il Ricorso ed i
documenti inseriti nell’allegato CD ROM.
Le parti ricorrenti agendo,
quantunque solo moralmente anche per tutti i 56 mila Colleghi iscritti ope
legis, nell’interesse superiore di una Avvocatura Libera, Solidale,
Democratica, Europea e Costituzionale innanzi tutto al suo interno, rinunciano
espressamente alle spese e ai compensi di lite.
Blog: studio legale avvocato Gabriella Filippone
Si declina ogni responsabilità per errori od omissioni, nonché per un utilizzo improprio o non aggiornato delle notizie e delle informazioni.
Si declina ogni responsabilità per errori od omissioni, nonché per un utilizzo improprio o non aggiornato delle notizie e delle informazioni.
Buona notizia! Grazie.
RispondiEliminaSperiamo bene!!!!
RispondiEliminaComplimenti ai Colleghi! Ho letto tutto il ricorso rigo per rigo! Che dire? Attendiamo fiduciosi nel giusto seguito!
RispondiEliminaIl ricorso è stato supervisionato da alcuni importanti Colleghi Avvocati amministrativisti :-) e direi che leggendolo si nota. Hanno preferito dare il loro spontaneo apporto alla causa senza alcun rendiconto personale, risonanza o clamore per cui i loro nomi non verranno divulgati.
RispondiEliminaGentile collega siccome mi sto muovendo in ritardo per motivi strettamente familiari, come posso fare per accodarmi al ricorso o comunque cosa mi rimane da fare per difendermi da questo immane sopruso ?
EliminaGrazie
Cara Collega, dovresti fare un intervento ad adiuvandum....entro la data della sospensiva ...ma l'utilità reale è minima...nel senso che se il Tar annulla il regolamento o sospende l'efficacia, ha valenza erga omnes...quindi puoi evitare il rischio della soccombenza alle spese...la notifica...solo di spese vive sono circa 400 euro se stampi come hanno fatto i ricorrenti tutti i documenti e più di quello che si è già scritto non si può scrivere... i Colleghi - e ne sono tanti quelli che hanno partecipato alla redazione del ricorso, trai i quali cito qui il l'Avv. Roberto Castellano, hanno analizzato il regolamento da ogni punto di vista...
EliminaGentile Collega, innanzi tutto ti ringrazio non solo per avermi risposto, ma anche per la tua schiettezza e sincerità circa l'utilità concreta in ordine ad un mio eventuale intervento ad adiuvandum relativo al ricorso da tutti voi colleghi già presentato.
EliminaPerò, siccome riconosco di essere poco preparata in materia, mi chiedo: perchè il futuro provvedimento che, speriamo, annullerrà o sospenderà il regolamento incriminato, ha efficacia erga omnes?
Gentilmente mi potresti spiegare?
Se così fosse ogni mio dubbio sparirebbe e, anche successivamente all'emanazione del provvedimento del Tar del Lazio favorevole alla nostra categoria, avrei la certezza di non dover agire in giudizio per difendermi, mediante un ricorso ad personam, fondando quest'ultimo anche e proprio sul provvedimento che annulla o sospende l'efficacia del regolamento "malefico".
In tal modo rimarrei iscritta senza dover procedere alla cancellazione.
Ti ringrazio infinitamente!!!
...ben fatto, grazie a nome di tutti!
EliminaComplimenti bel lavoro
RispondiEliminaGran bel ricorso! Io, purtroppo, sono stato costretto a cancellarmi per motivi di salute e le poche risorse economiche a mia disposizione le devo utilizzare per curami ma sono sicuro, che grazie al successo della vostra iniziativa giudiziaria, avrò la possibilità di reiscrivermi. Grazie di tutto!
RispondiEliminaBuona guarigione! :-)
EliminaAGGIORNAMENTO RICORSO AL TAR LAZIO. Fase cautelare: l'udienza per la sospensiva chiesta con Ricorso patrocinato dall'A.Gi.For (Associazione Giovanile Forense) avverso il Regolamento Previdenziale di Cassa Forense è stata fissata dal TAR del Lazio per il 1 dicembre 2014, ore 9.45, Sezione III Bis.
RispondiEliminaComplimenti a tutti i colleghi per l impegno nel redigere il ricorso. Incrociamo le dita, speriamo nel buon senso ( a volte ci vuole anche questo) del giudicante.
RispondiEliminaSolo un TAR miope potrebbe non accogliere il ricorso. Inoltre il coinvolgimento della Consulta è fondamentale: il contenuto del regolamento previdenziale offre il fianco a plurimi rilievi di incostituzionalità palesi ictu oculi anche a chi non avesse approfondite cognizioni di diritto costituzionale. Comunque è di fatto una normativa illegittima e discriminatoria, in palese violazione del principio sostanziale di uguaglianza. Chiunque lo capirebbe, anche solo in base al comune buon senso, che la contribuzione deve essere proporzionale al reddito. Il tutto senza considerare che il regolamento si pone in aperto contrasto con la normativa europea sulla libera concorrenza. Dunque si profila più che mai opportuna anche l'istanza di rinvio pregiudiziale spiegata nel ricorso. Come sostiene giustamente S. Rodotà in “La rivoluzione della dignità” "Se le nuove opportunità sono offerte selettivamente, se l'accesso dipende dalle risorse finanziarie dei singoli, si giunge ad una società castale; si opera una riduzione della cittadinanza, che diviene censitaria; più drammaticamente, si giunge ad un human divide...." Da qualche parte ho letto di un'esistenza libera e dignitosa. Ma dove sono finite la libertà e la dignità? Di certo non sono tutelate da questo regolamento. L'arroganza normativa non avrà mai fine ed è giusto indignarsi e reagire uniti!
RispondiEliminaSperiamo sospenda il TAR. Augury
RispondiEliminaHo letto avidamente il ricorso che è stato scritto in maniera magistrale. Al famigerato regolamento sono stati fatti "pelo e contropelo", solo un TAR miope escluderebbe sospensiva e annullamento. Speriamo bene e restiamo uniti!
RispondiEliminaGrazie Colleghi x quanto state facendo
RispondiEliminaELEZIONI CONSIGLI DEGLI ORDINI FORENSI di GENNAIO 2015 - LISTE PER UNA AVVOCATURA LIBERA DAI CONTRIBUTI MINIMI OBBLIGATORI (facebook group)
RispondiEliminaDIFENDIAMOCI. Entriamo nelle istituzioni forensi e rappresentiamo le nostre istanze. Proponete liste e candidature individuali (collegate ad associazioni che ci supportano o indipendenti)
Invitiamo ad un voto consapevole e a candidarvi
Visita il gruppo http://www.facebook.com/groups/1570227263212265/
complimenti per il ricorso
RispondiEliminasperiamo bene
Complimenti per aver argomentato validamente e pienamente ogni richiesta. Un grandissimo lavoro! Complimenti ai colleghi che hanno collaborato :D
RispondiEliminaHo letto con molta attenzione il ricorso e sento il dovere di ringraziare i Colleghi che lo hanno predisposto per l'impeccabile lavoro svolto. Vivano gli avvocati, vivano le libertà !
RispondiEliminaOttima esposizione difensiva. Concordo
RispondiElimina